Afghanistan:
20 anni di disfatta

Afghanistan, analisi di una disfatta
durata 20 anni

Kabul è caduta, gli americani hanno evacuato l'ambasciata
proprio come accadde a Saigon nel '75. E adesso?

di Simone Pasquini

Afghanistan:
20 anni di disfatta

Afghanistan, analisi di una disfatta
durata 20 anni

Afghanistan, analisi di una disfatta
durata 20 anni

di Simone Pasquini
AFGHANISTAN-CONFLICT

Afghanistan:
20 anni di disfatta

Afghanistan, analisi di una disfatta
durata 20 anni

Kabul è caduta, gli americani hanno evacuato l'ambasciata
proprio come accadde a Saigon nel '75. E adesso?

di Simone Pasquini

“Non ci sono possibilità che vediate persone che vengono evacuate dal tetto dell’ambasciata americana in Afghanistan”. Così, durante una conferenza stampa tenuta poco meno di due mesi fa, il Presidente Biden rispondeva con sicurezza alle domande dei giornalisti. A chi chiedeva se l’America stessa andando incontro ad un altro Vietnam, Biden rispondeva con voce ferma che il governo afghano era perfettamente in grado di respingere le forze dei talebani – gli estremisti islamici sunniti – dai territori controllati dal governo di Kabul.

Ed eccoci qui, novanta giorni dopo, a guardare gli elicotteri dell’esercito USA che evacuano civili e personale diplomatico dalla capitale afghana, mentre le colonne di fumo dei documenti segreti dati alle fiamme si alzano dal cortile dell’ambasciata.

Smoke rises next to the U.S. Embassy in Kabul, Afghanistan, Sunday, Aug. 15, 2021. Helicopters are landing at the U.S. Embassy in Kabul as diplomatic vehicles leave the compound amid the Taliban advanced on the Afghan capital. (AP Photo/Rahmat Gul)

Molti di noi, soprattutto fra i più giovani, faticano a ricordare l’inizio di questa tragedia epica durata quasi venti anni. Era l’ormai lontanissimo 2001 quando i soldati americani, ancora sporchi della polvere del World Trade Center, invadevano questo arido quanto antico paese asiatico per porre fine al governo dei terroristi che tanta parte avevano avuto nell’attentato dell’11 settembre. Come sempre avviene dalla notte dei tempi, quando un paese grande e ricco ne invade uno piccolo e povero l’esito sul campo di battaglia è scontato.

Ma questa volta il nemico era diverso da molti altri che l’America si era trovata ad affrontare nel corso della sua storia. Questi “mujaheddin” – “guerrieri santi”, come si facevano chiamare i talebani – erano una razza guerriera temprata nel fuoco di secoli di guerre fratricide ed invasioni straniere. Quando l’orso sovietico invase il Paese negli anni ’80, questi contadini e pastori dell’Asia centrale riuscirono a tenere a bada la seconda potenza militare del pianeta, fra lo stupore del Mondo intero.

Lo stesso Presidente USA Ronald Reagan incontrò alcuni di loro alla Casa Bianca per esprimere il suo supporto. Chi avrebbe mai immaginato che 20 anni dopo proprio i suoi successori allo studio ovale sarebbero stati costretti ad invadere le valli di questi montanari male armati ma motivati da una fede incrollabile e dal fanatismo religioso?

Nel corso di questi 20 anni di occupazione del territorio afghano, gli USA ed i loro alleati (Italia compresa) hanno tentato in tutti i modi di creare un governo afghano stabile e laico, al prezzo di una presenza militare costante che, oltre all’incredibile costo economico, ha richiesto l’estremo sacrificio di moltissimi soldati. Che cosa rimane di questo sforzo, ora che il Presidente afghano Ghani è fuggito (pare in Tagikistan) e le milizie islamiste sono entrate nella capitale? Era prevedibile un simile esito?

In molti, soprattutto in America, hanno voluto vedere un parallelismo con l’esperienza americana in Vietnam: una guerra lunga e sporca, con numerose vittime civili, per sostenere un governo amico contro un nemico aggressivo ed estremista (allora erano i nordvietnamiti comunisti, oggi sono i sunniti islamisti). Nel 1969 il neo-eletto presidente Richard Nixon, per sganciare il Paese da una guerra ormai impopolare e senza sbocchi, si inventò la strategia della “vietnamizzazione”, ovvero lasciare ai sudvietnamiti tutte le risorse necessarie per fare in modo che potessero proseguire da soli la “loro” guerra. Risultato: fallimento totale. Nella primavera del 1975 il Sud Vietnam si arrese agli invasori comunisti, i quali entravano nella capitale Saigon mentre gli ultimi cittadini americani venivano drammaticamente evacuati in fretta e furia.

Cittadini americani che fuggono da Saigon – 1975

La similitudine di quelle immagini con quelle immortalate nelle ultime ore a Kabul è impressionante. Perché dunque un simile risultato? Perché questi popoli, nonostante i massicci aiuti economici e militari non vogliono combattere contro l’oppressione? Se la storia ci insegna qualcosa è che una popolazione, per quanto martoriata ed oppressa, non si solleverà mai per combattere senza una alternativa convincente per cui rischiare. Soffrire per quel poco che si ha apparirà sempre più vantaggioso che perdere ogni cosa.

Sicuramente moltissimi afghani ricordano la sofferenza imposta al popolo dal regime dei talebani fra il 1996 ed il 2001. Ma in tutti questi anni i governi sostenuti dalle forze di occupazione occidentali sono sempre apparsi deboli ed incapaci di affrontare i problemi della società. Nelle ultime ore buona parte dell’esercito, della polizia, degli stessi cittadini non si sono sollevati contro il governo né si sono uniti ai talebani. Semplicemente, sono spariti. Proprio come avvenne all’esercito sudvietnamita quando la caduta del Governo del Sud apparve ormai certa. E proprio come il Governo del Sud Vietnam sembrava alla propria popolazione un apparato in mano ad una corrotta oligarchia di politici e militari pagati dagli americani, così il Governo afghano è stato percepito dalla maggior parte della popolazione come qualcosa di puramente artificiale e corrotto, incapace di costituire una credibile alternativa e la cui caduta potrebbe portare ad un periodo di pace in una terra che da quarant’anni non vede altro che tragedie e lutti.

Quali potrebbero essere le conseguenze di questo nuovo scenario? In molti temono che la vittoria dei talebani possa trasformare nuovamente l’Afghanistan in un rifugio sicuro per il terrorismo internazionale. Dopotutto, fu questo il motivo per cui gli USA ritennero di dover invadere il Paese nel 2001. La leadership talebana aveva infatti stretto una alleanza con Al Qaida ed Osama Bin Laden, facendo dell’Afghanistan una enorme base in cui poter addestrare terroristi e fornire supporto e risorse alle organizzazioni terroriste sunnite di tutto il Mondo. Certamente questo timore può essere considerato ben fondato.

Tuttavia, vi è da considerare quale sarà il ruolo di un Afghanistan nuovamente talebano in un contesto regionale come quello dell’attuale Asia Centrale. Piuttosto che proiettarsi nuovamente sullo scenario internazionale, è possibile che gli estremisti sunniti decideranno di farsi coinvolgere nelle tensioni locali, in particolare per quanto riguarda la difficile vicinanza con l’Iran sciita? Ed ancora, quale sarà il ruolo della Cina in questa transizione? Pechino si ingerisce ormai da tempo nelle questioni dei suoi vicini territoriali, in particolare dall’inizio del mastodontico progetto della “Nuova Via della Seta”, conosciuto anche come “Belt and Road Initiative” (BRI).

Questa nuova arteria commerciale terrestre potrebbe trovarsi ad essere minacciata dal nuovo attore islamista nella regione, soprattutto a causa della repressione cinese nella provincia dello Xijiang della popolazione turcofona e musulmana degli Uiguri. Già da alcuni anni cittadini ed uffici cinesi in Asia centrale sono stati sottoposti a numerosi attacchi ed agguati, in massima parte opera di estremisti. Solo nel mese di luglio diversi nazionali cinesi in Pakistan (nazione molto importante per il passaggio del BRI) sono rimasti feriti ed uccisi in ben due differenti attacchi terroristici. Poche ore fa il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, ha affermato che la Repubblica Popolare è pronta ad avviare “relazioni amichevoli” con il nuovo regime afghano, sostenendo che “la Cina rispetta il diritto del popolo afghano di determinare in modo indipendente il proprio destino e futuro” (ANSA).

C’è già chi è pronto a giurare che ciò che non hanno potuto le armi americane potrà invece il denaro di Pechino. Per ora l’unica cosa certa è che mentre stiamo scrivendo queste righe gli ultimi aerei C-130 da trasporto stanno partendo dall’aeroporto da Kabul mentre la popolazione disperata cerca inutilmente di salirvi, appropriato epitaffio sulla tomba di quella “democrazia esportata” che in realtà non è mai riuscita a camminare con le proprie gambe.

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