Il 9 luglio del 1941 i primi treni colmi di giovani soldati lasciavano, dopo solenni celebrazioni alla presenza di Mussolini, le banchine della stazione Termini per dirigersi verso nord. A bordo, i fanti della divisione “Torino” cercavano di ammazzare il tempo, in attesa di potersi congiungere con i commilitoni che da Cremona e da Verona si stavano accingendo a partire per lo stesso viaggio.
Un viaggio che li avrebbe condotti a migliaia di chilometri dalle loro case, in un paese lontano ed abitato da quei mostri – i bolscevichi – che, secondo la propaganda fascista, minacciavano le fondamenta stesse della civiltà occidentale. Un lunghissimo serpente di centinaia e centinaia di carrozze e vagoni, snodandosi per l’Europa centrale occupata dai nazisti, stava trasportava i circa 60.000 uomini del CSIR, ovvero il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, ad aiutare il fiero alleato germanico nella lotta contro il mostro comunista.
I nostri soldati non potevano saperlo, ma era l’inizio di un epico dramma da cui molti di loro non avrebbero più fatto ritorno.
La situazione, in quella estate del 1941, non era decisamente facile per Benito Mussolini. La sua Italia, che il regime pretendeva fosse stata temprata dalla fiamma ardente della rivoluzione fascista, aveva appena “festeggiato” il suo primo anniversario di guerra, ed il bilancio delle azioni militari italiane lasciava molto a desiderare.
Dopo i disastri in Nord Africa e nei Balcani, l’Italia aveva esteso i propri domini solo grazie al benevolo quanto pietoso aiuto delle forze tedesche, che non potevano permettersi di perdere il proprio principale alleato nel Mediterraneo.
Questo stato di cose, tuttavia, minava grandemente la posizione politica di Mussolini, il quale, come non riusciva più a dimostrarsi un alleato militare credibile, allo stesso tempo non poteva nascondere all’opinione pubblica le gravi carenze del nostro apparato militare. Il regime aveva bisogno di cancellare l’impressione di inadeguatezza, qualcosa che permettesse di tornare a sperare nella buona sorte dell’Italia e nell’infallibilità del Duce.
E quando negli ambienti militari e diplomatici vennero confermate le voci di un imminente attacco tedesco all’Unione Sovietica, Mussolini credette di aver trovato esattamente quello che stava cercando. Il giorno stesso dell’avvio dell’invasione – la cosiddetta Operazione Barbarossa, il 22 giugno di quell’anno – un non eccessivamente entusiasta Adolf Hitler accettava la proposta italiana di inviare un contingente italiano in collaborazione con le forze tedesche.
A tempo di record venne costituito un corpo di spedizione che potesse avere le caratteristiche di alta mobilità necessarie alla dottrina della “guerra lampo” tedesca. Le divisioni di fanteria “Torino”, “Pasubio”, “Duca d’Aosta” e la legione di camice nere “Tagliamento” erano unità ben addestrate ed equipaggiate, ma dotate di scarsa artiglieria e praticamente sprovviste di truppe corazzate.
Erano, semplicemente, l’ennesima dimostrazione che l’Italia poteva produrre ottimi soldati, ma semplicemente non aveva le risorse necessarie per affrontare una guerra totale. Nonostante queste carenze, i 62.000 uomini del CSIR, nel giro di circa un mese, riescono a raggiungere le truppe tedesche al fronte, che nel frattempo stanno letteralmente divorando il territorio russo.
Già ai primi di agosto la divisione “Pasubio” ebbe il suo battesimo del fuoco, comportandosi peraltro egregiamente. Nel corso dei mesi successivi queste unità italiane, guidate dal generale Giovanni Messe – forse il più capace generale italiano di tutta la guerra – verranno inserite nello schieramento tedesco, dando nel complesso una buona prova di sé.
L’avanzata tedesca, che sembrava nei primi mesi inarrestabile, venne infine sopraffatta dall’inverno russo, e le truppe naziste subirono alle porte di Mosca la loro prima vera sconfitta nel dicembre di quello stesso anno.
La guerra sul fronte orientale iniziava a prendere l’aria di una faccenda lunga. Per questo Hitler, in vista delle nuove offensive che sarebbero state lanciate nei mesi primaverili, fu ben contento di accettare le ulteriori offerte di aiuto che arrivavano insistentemente da Roma. Esattamente un anno dopo l’arrivo del CSIR al fronte, fra il luglio e l’agosto 1942, arrivarono in Ucraina le forze della nuova ARMIR – Armata Italiana in Russia, portando i soldati italiani sul fronte orientale a quota 200.000.
Quando l’ARMIR giunge nelle piane dell’Ucraina, fra il Dnepr ed il Donbass (le stesse regioni che per tragica coincidenza della Storia sono ancora oggi al centro di un tragico conflitto) trova di fronte a sé un nemico in fuga di fronte alla nuova offensiva germanica. L’obiettivo ultimo delle forze italo-tedesche è quello di raggiungere i ricchi giacimenti petroliferi del Caucaso, e per questo gli italiani hanno portato con sé anche diversi reparti di Alpini, truppa di montagna ideale per quello scenario di combattimento. Ma l’avanzata dell’asse è destinata ad arrestarsi di fronte ad una città chiamata Stalingrado, nel basso corso del fiume Volga.
La cocente sconfitta subita in quella battaglia segnerà il punto di svolta della guerra. Quando il 16 dicembre 1942 le truppe sovietiche lanciano l’operazione Piccolo Saturno, allo scopo di rompere l’assedio nazista di Stalingrado, le truppe italiane vengono investite in pieno dalla marea umana russa. I soldati dell’ARMIR erano stati schierati sul corso superiore del Don, a protezione del fianco sinistro tedesco, e quindi sfondare in quel punto per i sovietici avrebbe significato intrappolare tutta la 6° Armata del generale Friedrich Paulus dentro Stalingrado. Le truppe italiane, in grande inferiorità numerica, resistono a lungo alla grande pressione, ma infine sono costrette a cedere.
Per i sopravvissuti all’attacco ha inizio così quella lunga e penosa marcia verso ovest che rimane ancora oggi una delle pagine più tragiche della storia militare italiana, la cui memoria è ancora tenuta viva dalle opere di Rigoni Stern o da film come “I Girasoli” di Vittorio de Sica. Quando i primi giorni del febbraio 1943 i primi superstiti arrivano nella regione di Gomel, più di 100.000 uomini sono morti, molti per congelamento, o sono dati per dispersi.
Quasi tutti loro hanno dovuto affrontare centinaia di chilometri nella neve alta, a piedi, senza alcun tipo di sostentamento. Alle loro spalle, quello che rimane delle forze armate tedesche è ormai chiuso in trappola fra le macerie di Stalingrado.