La mattina del 6 agosto 1945, precisamente alle ore 8:15, delle forte vibrazioni furono avvertite in buona parte del Giappone centrale. Molti abitanti pensarono immediatamente ad una scossa di terremoto, frequente in un paese ancora oggi molto attivo dal punto di vista sismico. La cosa strana, però, era che in diverse località gli animali sembravano spariti.
Una calma innaturale e vagamente sinistra aleggiava sui campi, sulle montagne e sui boschi. Qualcuno, forse, dovette pensare che quella non era una giornata come tante altre.
Facciamo un piccolo salto in avanti di qualche ora. Su un aereo da trasporto militare decollato in tutta fretta da Tokyo, rotta sud-sudovest, c’è un giovane ufficiale dello Stato Maggiore imperiale. Quella mattina aveva ricevuto un ordine abbastanza insolito dai suoi superiori.
Per qualche strana ragione, sia l’emittente radiofonica nazionale che le stesse comunicazioni militari non riuscivano a mettersi in contatto con la città portuale di Hiroshima. Quello che a Tokyo si sapeva prima del blackout delle comunicazioni era che alle prime ore del mattino era stata rilevato dai radar l’avvicinamento di una formazione di tre aerei, verosimilmente americani.

Poiché tre soli aerei non potevano costituire una seria minaccia – probabilmente si pensò ad una semplice missione di ricognizione – non si ritenne necessario allertare le formazioni della difesa aerea, soprattutto considerando quanto fosse scarso e prezioso il carburante in quella difficile quarta estate di guerra. Poi, però, più niente.
Dato che improvvisamente sembrava impossibile comunicare con la guarnigione della città, compito del giovane ufficiale era quello di recarsi in aereo il più velocemente possibile ad Hiroshima e fare rapporto sulla situazione. Effettivamente, da delle stazioni a diversi chilometri di distanza da Hiroshima, erano state inoltrate al Quartier Generale delle comunicazioni circa una terribile esplosione nei pressi della città.
Ma al comando erano tutti abbastanza sicuri che si trattasse di esagerazioni. Quello che però il giovane ufficiale ed il suo pilota videro dall’aereo, mentre giravano in tondo sul cratere che fino al giorno prima ospitava più di 300.000 abitanti, era qualcosa che non si poteva spiegare con i comuni mezzi della ragione.
Le vicende legate ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki nel corso degli anni sono state narrate con dovizia di particolari in numerosi libri, film e documentari. In pochi non hanno mai sentito parlare della bomba all’Uranio 235 – ribattezzata Little Boy – sganciata dal bombardiere americano B-29 Enola Gay, dal nome della madre del comandante, il colonnello Paul Tibbets jr.

L’aereo era decollato con il suo carico di morte dall’isola di Tinian, nelle Marianne settentrionali, dopo che i componenti finali della bomba erano stati consegnati sull’isola dall’incrociatore USS Indianapolis, prima della sua tragica fine (ve ne avevamo parlato nell’anniversario della scorsa settimana).
Quello che vorremmo fare nel limitato spazio che abbiamo a disposizione, in questa tragica ricorrenza, non è tanto quello di riportare ancora una volta sterili dettagli e curiosità morbose, quanto piuttosto fornire qualche elemento magari meno noto che permetta di aiutare a rispondere a domande come: perché proprio Hiroshima? Quali furono le reazioni successive al bombardamento. E, soprattutto, quanto questa tragedia fu realmente decisiva nel porre fine alla seconda guerra mondiale?
Perché bombardare proprio Hiroshima?
Partiamo dalla prima, e forse più immediata, delle domande. Perché bombardare Hiroshima piuttosto che, ad esempio, la capitale Tokyo? L’alto comando americano (o, per meglio dire, quei pochi individui che all’interno dell’alto comando erano a conoscenza del progetto Manhattan) si interrogò a lungo sull’obiettivo ideale.
Si cercava un bersaglio che avesse delle installazioni militari. Ma non solo, era anche necessario – triste dirlo – che vi fosse una consistente presenza di civili, così che il messaggio potesse giungere con la dovuta forza alla popolazione nipponica. Anzi, meglio ancora se si fosse trattato di un luogo di alto valore simbolico.
Infatti, scartata l’ipotesi di colpire la capitale, in quanto questo avrebbe lasciato il paese privo di una leadership con cui interfacciarsi per l’eventuale resa, un obiettivo papabile fu Kyoto, l’antica capitale imperiale, probabilmente il più importante sito storico ed artistico di tutto l’arcipelago giapponese.
Hiroshima presentava tutte le precedenti caratteristiche – discreta popolazione, presenza di infrastrutture militari, importante città di antica fondazione – ma era soltanto una in una rosa di possibili obiettivi.
Condizioni meteo favorevoli
Per quanto possa essere difficile accettarlo, non meno di 80.000 uomini, donne e bambini vennero inceneriti semplicemente perché sulla loro città quel giorno le condizioni meteo erano le migliori. Ognuno di noi può concludere se sia stata opera del caso oppure di un qualche tragico destino già scritto. Oppure, limitarci a distogliere pietosamente lo sguardo.
Quando il nostro giovane ufficiale fece ritorno a Tokyo ed ebbe riferito ad i suoi superiori ciò che aveva visto, le proporzioni della tragedia non potevano ovviamente essere ignorate. Ma contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la reazione del governo militare giapponese non fu quello di accettare apertamente una sconfitta che appariva già inevitabile nel 1944, bensì arroccarsi ancora di più su posizioni di intransigenza.
La reazione di Tokyo
Il Giappone avrebbe continuato a combattere fino alla vittoria finale. Fu soprattutto per questo motivo che il 9 agosto anche la città di Nagasaki venne spazzata via dalla tempesta atomica. E fu solo dopo quella seconda tragedia che il governo imperiale – compreso lo stesso imperatore Hirohito – si decise ad avviare le trattative per la resa incondizionata.
Ma non senza che l’ala più intransigente dell’esercito tentasse, con un colpo di Stato, di prendere il potere, forzare la mano all’imperatore e continuare la guerra. Fra il 12 ed il 15 agosto alcuni ufficiali tentarono di occupare il Palazzo imperiale ed il Ministero della Guerra, mentre squadre scelte davano la caccia a personalità politiche e militari notoriamente a favore della pace.
Alla fine il colpo di Stato fallì ed il suo leader, il maggiore Kenji Hatanaka, si suicidò con un colpo alla testa nel Palazzo dell’imperatore. Tutto questo può dare una misura della tenacia e della caparbietà con cui ancora grandi porzioni delle forze armate si ostinavano a rifiutare la dura realtà delle cose, senza nessuna considerazione per l’inutile spreco di vite umane.
La bomba fu decisiva per porre fine alla Seconda Guerra Mondiale?
In ultimo, la questione più spinosa. Queste immani tragedie, che nella migliore delle ipotesi hanno provocato 150.000 morti già solo al momento della deflagrazione (senza contare, quindi, gli avvelenamenti da radiazioni nel corso degli anni successivi) sono state davvero necessarie per porre fine alla carneficina della seconda guerra mondiale?
Come si può immaginare, si tratta di una questione per la quale sono stati versati fiumi di inchiostro, e che ancora oggi divide le coscienze. Probabilmente, non sarà mai possibile giungere ad una conclusione unanime ed universalmente accettata.
Possiamo, però, azzardare delle ipotesi. Per prima cosa, immedesimiamoci nel comando americano del Pacifico, guidato dal Generale Douglas MacArthur. Poiché lo sviluppo della bomba fu tenuto segreto fin dall’inizio, lo Stato Maggiore predispose un piano di invasione “convenzionale” delle isole giapponesi, che si sarebbe dovuto concludere nella primavera del 1946.
L’operazione, nome in codice Downfall, stimava che gli USA, nella migliore delle ipotesi, avrebbero perso centinaia di migliaia di uomini nell’invasione (fra morti e feriti), cui si aggiungevano milioni e milioni di vittime fra la popolazione civile (che gli americani supponevano sarebbe stata militarizzata, creando una sorta di sovrapposizione fra apparato militare e civili combattenti).
Perché uccidere i civili?
Di fronte ad una simile prospettiva, dopo ormai 4 anni di guerra, appare comprensibile (comprensibile, non giustificabile) la scelta dell’uso dell’arma atomica. I critici sostengono, tuttavia, che non sarebbe stato necessario distruggere centri urbani, ma magari realizzare bombardamenti “dimostrativi” in aree scarsamente abitate, così da rendere chiaro alla leadership giapponese quello a cui stavano andando incontro.
Si tratta, a mio avviso, dell’argomentazione più stringente, in merito alla quale, tuttavia, il tentato colpo di Stato del 12 agosto getta delle ombre sulla pretesa ragionevolezza a cui sarebbero giunti i militari giapponesi.
In ultima analisi, una conclusione equilibrata a cui giungere potrebbe essere la seguente: il Giappone, date le condizioni oggettive di inferiorità economica ed industriale, sarebbe stato costretto ad arrendersi in ogni caso; l’uso delle due bombe permise, tuttavia, di accorciare significativamente i tempi, con un dispendio di vite umane verosimilmente molto inferiore.

Forse si sarebbe potuti giungere ad un diverso esito qualora gli Stati Uniti avessero rinunciato a pretendere dal Giappone una resa incondizionata, negli stessi termini imposti alla Germania nazista, lasciando uno spiraglio politico in cui il partito della pace a Tokyo – oggettivamente molto numeroso – avrebbe potuto mettere in minoranza i militari oltranzisti.
Il fatto è che, in questo momento, siamo già di gran lunga sconfinati nel campo delle supposizioni e delle congetture, che di per sé si raccordano poco con l’obiettiva ricostruzione della verità storica (o, perlomeno, il tentativo di raggiungerla).
L’unica cosa che, personalmente, sento di poter aggiungere alla discussione è la seguente: siamo sicuri che la Guerra Fredda, con il suo tipico meccanismo di reciproca minaccia di distruzione atomica, avrebbe avuto l’epilogo che conosciamo qualora il Mondo non avesse avuto modo di sperimentare nella più tragica delle maniere cosa l’uomo è capace di fare pur di raggiungere i propri obiettivi?