“Sicuramente molti errori avrebbero potuto essere evitati, si sarebbero potute fare meglio molte cose, ma sono sicuro che prima o poi, con i nostri sforzi comuni, raccoglieremo i frutti delle nostre azioni, verso una società più giusta e democratica. Auguro a tutti il meglio”. Con queste parole l’ultimo Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico, Michail Gorbaciov, chiudeva il discorso che annunciava le sue dimissioni da Presidente dell’Unione Sovietica e l’abolizione della carica. Dopo 74 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, alle ore 18:30 del 25 Dicembre 1991, la bandiera rossa viene ammainata dalla cima del Cremlino. E’ la fine di un’era, del Mondo per come lo si conosceva fino a quel momento.
Il crollo dell’Unione Sovietica costituisce uno dei momenti più significativi della storia recente. La fine del comunismo lì dove esso si era per la prima volta affermato rappresentò non solo l’apparente conclusione di quegli ideali di cambiamento che per tre generazioni avevano ispirato i rivoluzionari di tutto il Mondo, ma più concretamente pose fine a quel decennale conflitto con gli Stati Uniti noto come “Guerra Fredda”.
La fine del bipolarismo (ovvero la divisione del Mondo in “blocchi” pro Usa e pro URSS) fu una delle principali cause della situazione di incertezza a livello internazionale degli ultimi 30 anni, con l’emersione di nuovi attori a livello mondiale (come, ad esempio, la Cina) che in qualche modo stanno riempiendo il vuoto lasciato da una Unione Sovietica che aveva ormai fatto il suo tempo. A cosa si riferiva tuttavia Gorbaciov pronunciando l’espressione “molti errori”?
Era davvero possibile salvare un sistema che, più che crollato, si era letteralmente dissolto dall’interno? Uomini come Gorbaciov lo credevano possibile, speravano che l’Unione potesse essere riformata dall’interno e tornare ad essere il grande attore internazionale che era stato per tutti gli anni ’60 e ’70, quando nazioni di tutto il Mondo (soprattutto quelle che si erano appena scrollate di dosso il giogo del colonialismo europeo) guardavano all’URSS come una possibile ed auspicabile alternativa ad un Occidente capitalista e sfruttatore.
Quando nel 1985 Gorbaciov venne nominato Segretario Generale del Partito (in pratica la carica più importante dell’Unione) la sua elezione voleva essere una netta cesura con il passato. La prima metà degli anni ’80 fu un periodo molto difficile per l’Unione, la quale incominciava a mostre i segni di una obsolescenza ormai grave, che dagli impianti industriali e produttivi giungeva fino al cuore stesso del potere sovietico: il mandato lungo 18 anni del vecchio Segretario Leonid Breznev suggellava un universo socialista che, pur minaccioso al di là della cortina di ferro, stava cominciando ad irrigidirsi sempre di più.
Morto Breznev, dopo anni di leadership minati dalla sempre più grave forma di demenza senile che lo affliggeva, la sorte dei suoi successori fu il simbolo stesso della decadenza della “situazione imperiale” sovietica: Jurij Andropov, già capo del KGB, e Konstantin Cernenko, uno dei principali ideologhi del Partito, ormai anziani e malati morirono entrambi dopo aver ricoperto la carica per poco più di un anno. L’elezione di Gorbaciov, già da tempo in vertiginosa ascesa all’interno del PCUS, da parte del Soviet Supremo dell’URSS avrebbe dovuto rappresentare l’inizio del cambiamento. Il nuovo Segretario, sostenuto dalle frange riformiste all’interno del Partito e, soprattutto, dagli strati più giovani della popolazione e degli ambienti intellettuali, aveva intenzione di compiere delle riforme strutturali finalizzate ad instillare nuova vitalità al sistema economico e sociale dell’Unione.
Due furono le parole intorno a cui ruotò l’azione di riforma: glasnost e perestroika, ovvero “trasparenza, discorso libero” e “ricostruzione”. La differenza anagrafica fra Gorbaciov e la vecchia dirigenza sovietica celava un abisso che divideva due concezioni della politica ben diverse: Breznev e gli altri esponenti della gerontocrazia sovietica (come è stata più volte definita) erano giovani ed appassionati membri della gioventù comunista quando lo stalinismo impresse il suo pesante marchio sull’Unione, partecipando attivamente alle lotte contro i proprietari terrieri nelle campagne ed al processo di industrializzazione forzata del Paese. Essi erano convinti che i sistemi staliniani fossero gli unici strumenti in grado di creare una società sovietica forte, in grado di ingaggiare e vincere l’inevitabile scontro con l’Occidente.
Gorbaciov, al contrario, apparteneva alla schiera di coloro che, pur fedeli comunisti, avevano toccato con mano i crimini dello stalinismo (entrambi i suoi nonni furono perseguiti in quanto nemici del popolo durante le collettivizzazioni delle campagne) e che poi, come giovani membri del Partito, avevano potuto osservare lo scarto sempre maggiore che si stava accumulando fra la realtà sovietica ed il Mondo oltre la cortina di ferro. Egli era dunque convinto che per poter salvare l’Unione fosse necessario avviare un procedimento di limitata a progressiva liberalizzazione e democratizzazione, liberando lo Stato e la società dal peso di una burocrazia sempre più opprimente ed inefficiente.
Purtroppo, la società sovietica apparve molto più difficile da riformare di quanto Gorbaciov e la nuova leadership sperassero. Decenni di dirigenza staliniana e brezneviana avevano ormai completamento irrigidito la società e la popolazione: sotto il peso delle riforme l’Unione, piuttosto che piegarsi ed adattarsi al nuovo corso come una flessibile canna, si spezzò come un ramo secco. L’obsolescenza delle industrie e degli apparati produttivi, il debito nazionale ormai più che quintuplicato (anche a causa dei continui aiuti ai paesi satelliti), le enormi spese sostenute per la corsa agli armamenti e le altrettanto grandi perdite subite dall’Unione a causa dell’intervento in Afghanistan (1979-1989) avevano reso l’Unione un gigante dai piedi di argilla.
L’introduzione di una (seppur limitata) libertà di espressione e di alcuni meccanismi propri dell’economia di mercato non fecero altro che minare la credibilità delle istituzioni sovietiche (già pesantemente screditate dal disastro della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986) ed aggravare enormemente la situazione economica. La popolarità di Gorbaciov, inizialmente molto alta in patria, iniziò pian piano a diminuire sempre di più. Se per l’Occidente egli era l’uomo della distensione, il promotore della fine della corsa agli armamenti, in Unione sovietica la sua posizione diventava sempre più difficile: egli era troppo liberale per i sostenitori della “vecchia” Unione, convinti che questo nuovo arrivato stesse compromettendo le conquiste del socialismo ed indebolendo l’URSS di fronte al Mondo; allo stesso tempo, egli non era abbastanza audace per le frange più irrequiete all’interno dell’Unione, soprattutto per quelle minoranze nazionali che, a lungo tempo soggiogate, sentivano ora di potersi emancipare da una Unione sovietica egemonizzata dall’etnia russa.
Gorbaciov parve assecondare i tentativi di maggiore autonomia ed indipendenza delle nazionalità non russe dell’Unione, al punto da essere disposto ad un radicale riassetto dell’organizzazione statale in senso decentralizzato. Nell’agosto del 1991 un gruppo di politici e militari seriamente preoccupati dalla piega che gli avvenimenti avevano preso, organizzarono un colpo di Stato, riuscendo persino a porre in arresto Gorbaciov e sua moglie nella tenuta presidenziale in Crimea.
Sebbene i golpisti fossero convinti che avrebbero goduto del supporto della popolazione, i cittadini dell’Unione preferirono in gran parte non schierarsi e mantenere un atteggiamento attendista. Il fallimento del golpe fu anzi un modo che ebbero personalità politiche alternative all’establishment del PCUS per ottenere una posizione di prestigio, come ad esempio il neo-eletto presidente della Repubblica sovietica russa Boris El’cin, che venne persino immortalato su un caro armato mentre incitava i cittadini moscoviti a difendere il Parlamento dalle truppe della giunta militare. L’ultimo tentativo di preservare l’Unione era fallito, il golpe era durato solo tre giorni ed un Gorbaciov ormai salvo ma sfinito riprendeva posto al Cremlino.
L’8 dicembre El’cin insieme ai Presidenti di Ucraina e Bielorussia firmavano gli accordi di Belaveza, con i quali si dichiarava dissolta l’Unione sovietica, che veniva sostituita da una nuova entità chiamata Comunità degli Stati Indipendenti, anticamera dell’imminente indipendenza di tutte le repubbliche federate. Qualsiasi residuo tentativo di salvare l’Unione era ormai politicamente impossibile: alle 18:00 del 25 dicembre un Gorbaciov molto provato appariva in televisione per annunciare che ormai l’Unione non aveva più ragione di sussistere. Il giorno successivo il Soviet Supremo ratificava le disposizioni presidenziali.
L’Urss non esisteva più, e con la scomparsa della bandiera rossa sul tetto del Cremlino spariva dal palcoscenico della storia anche uno dei grandi protagonisti dell’Età contemporanea.