Abbiamo davvero bisogno di Alitalia?

di Demetrio Scopelliti

Abbiamo davvero bisogno di Alitalia?

di Demetrio Scopelliti

Abbiamo davvero bisogno di Alitalia?

di Demetrio Scopelliti

Basta aprire i giornali per capire che il carrozzone di stato per eccellenza è in crisi nera da anni, da decenni forse. Una compagnia aerea che perde ogni giorno più di 715 mila euro e che, in barba alla concorrenza, si mantiene su un fondo di garanzia statale che gli permette di mantenere rotte aeree con coefficiente di riempimento bassissimo, prezzi altissimi e migliaia di unità di personale in eccedenza. La compagnia di bandiera arriva, però, dove l’alta velocità ferroviaria non si è ancora insediata. Tiene le isole e le Regioni del Sud collegate al resto del Paese, ma disegna inevitabilmente un modello di business ormai in caduta libera.

Perché il gigante tricolore rappresenta ormai una ristretta percentuale del traffico aereo italiano, un mercato oramai quasi interamente in mano alle compagnie low cost, che garantiscono le stesse tratte a prezzi infinitamente più bassi. Cambia poi anche la mobilità sulle medie distanze, con sempre più viaggiatori che preferiscono la strada ferrata; perché l’alta velocità ha avuto il merito di accorciare le distanze del nostro Paese, è un modello di mobilità verde, che inquina molto meno di un aereo e non comporta tutte le limitazioni e i disagi del trasporto aereo, come il limite di peso dei bagagli e la collocazione degli aeroporti, che nelle grandi città sono distanti dal centro.

Inoltre, Alitalia è stata per anni il paradigma degli sprechi italiani. Un’azienda di fatto privata ma che ha ricevuto negli ultimi decenni cospicue iniezioni di liquidità statali, fino all’ultimo prestito-ponte del Dicembre 2019 che ammonta a 400 milioni di euro. Fino ad oggi, al netto degli utili che la compagnia di bandiera ha generato, il costo totale ammonta a circa 7,4 miliardi di euro, tutti a carico dei contribuenti. Anzi, a carico dei viaggiatori. Perché la Cassa Integrazione a cui si fa perennemente ricorso per garantire un salario ai lavoratori Alitalia, si alimenta di un fondo di garanzia che è a carico delle altre compagnie aeree che operano in Italia.

Ma non finisce qui: perché oltre ad avere un numero di dipendenti spropositato rispetto alle altre compagnie aeree, hostess e piloti sono sempre stati considerati dei veri e propri privilegiati, con stipendi che retribuivano il lavoro di responsabilità e di stress di chi lavora nei cieli ma di certo non in linea con i colleghi di altre compagnie; retribuzioni che solo di recente sono state tagliate.

Nonostante ciò il modello non è tutto da buttare; basti pensare all’imprescindibile ruolo di collegamento con le principali città africane, un mercato in costante espansione; le rotte a lungo raggio, vero fiore all’occhiello della compagnia di bandiera, e il ruolo fondamentale di mantenimento della continuità territoriale, che assicura il collegamento con tutto il Paese di realtà geograficamente frammentate e altrimenti irraggiungibili come le numerosissime isole e arcipelaghi del Mediterraneo.

Altrettanto vero è che il mercato è cambiato, e le compagnie di bandiera arrancano rispetto allo spopolare delle low cost che conquistano i principali fruitori di viaggi aerei; non più una clientela business, o saltuaria, ma una clientela giovane, abituale che prende l’aereo per andare in vacanza, per raggiungere il luogo di lavoro o di studio o per un weekend fuori porta.

Le cause della crisi sono però più strutturali di quanto non sembrino e si riflettono nella difficoltà tutta italiana di sopportare le liberalizzazioni di settori prima di monopolio pubblico come il trasporto aereo; nell’incapacità di trasformare carrozzoni di stato in società private con modelli di gestione, cattiveria competitiva, capacità di adeguamento. Non bisogna però fare di tutta l’erba un fascio; ENEL, ENI, Trenitalia sono esempi di privatizzazioni perfettamente riuscite, esempio dell’eccellenza dell’impresa italiana nel mondo.

Alitalia è invece un pessimo anacronismo, un esempio di una parte di Paese che non riesce ad intercettare i cambiamenti del mercato, un mercato come quello aereo che ha subito pesanti cambiamenti, passando dall’essere un mezzo di trasporto di lusso, ad un mezzo di trasporto di massa. Alitalia è un po’ il residuo di un modello di politica industriale superato, quel modello in cui l’IRI governava una miriade infinita di partecipazioni pubbliche, esisteva un Ministero per le Partecipazioni Statali e avevamo panettoni, gelati e bolidi di Formula 1 di Stato.

Non è un caso che ad affiancare la crisi di Alitalia vi sia un altro residuo fossile come ILVA, tutti figli di un modello industriale basato sull’intervento pubblico e sul capitale statale, eredi di un’epoca di benessere economico in cui il lavoro e gli stipendi alti non mancavano, le pensioni erano basate sul modello contributivo e a 40 anni ci si poteva reinventare un altro lavoro.

Con la crisi senza fine di Alitalia stiamo scontando anche i costi, scaricati sulle generazioni avvenire, di questo modello tutt’altro che sostenibile. Ma di tutto ciò abbiamo (ancora) bisogno?

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