L’abbaglio del merito

L'abbaglio del merito

Interrogarsi sul significato della parola “meritocrazia” significa interrogarsi
sulla democrazia. Sulla sua crisi, sulle tensioni che l’hanno indebolita

di Raffaele La Regina
di Redazione The Freak

L’abbaglio del merito

L'abbaglio del merito

L'abbaglio del merito

di Raffaele La Regina
di Redazione The Freak
merito

L’abbaglio del merito

L'abbaglio del merito

Interrogarsi sul significato della parola “meritocrazia” significa interrogarsi
sulla democrazia. Sulla sua crisi, sulle tensioni che l’hanno indebolita

di Redazione The Freak
di Raffaele La Regina

Pubblichiamo “L’abbaglio del merito“, un articolo scritto da Raffaele La Regina – dottorando in Storia Contemporanea ed ex segretario del Pd Basilicata – e pubblicato dalla rivista dell’Arel nel gennaio del 2021. Un articolo di un anno e mezzo fa, oggi estremamente attuale alla luce della decisione del nuovo governo guidato da Giorgia Meloni di inserire la parola “merito” nella denominazione del ministero dell’Istruzione.

Quando si discute di uguaglianza può essere utile analizzare una delle concezioni sociali che tende, più o meno di altre, a eroderla: la meritocrazia.

L’etimologia della parola “meritocrazia” è da cercarsi nella composizione di una parola di origine latina, mer re (guadagnare), e una di origine greca, kratos (potere), andando a indicare una concezione della società e di selezione dei ruoli in base al merito, al frutto delle capacità, alle competenze e ai talenti.

Riflettere sul concetto di meritocrazia vuol dire affrontare il tema dell’uguaglianza e di come questo sia stato progressivamente dimenticato dal dibattito pubblico e dall’agenda politica degli ultimi decenni.

Spesso le analisi sulla meritocrazia partono dal celebre romanzo distopico di Michael Young, L’avvento della meritocraziaProprio a Young è da attribuirsi, nel 1958, la coniazione – con accezione negativa – del termine in questione. La prima edizione italiana del romanzo è stata curata da Edizioni di comunità nel 1962, la celebre casa editrice fondata da Adriano Olivetti, uno dei massimi pensatori e costruttori di comunità nel secolo scorso.

Sono proprio queste a subire gli effetti o le trappole di questa tendenza sociale. Negli scenari attuali la preoccupazione dominante è quella di misurare, valutare e ricompensare le differenze fra individui, coprendo con estrema disinvoltura l’esistenza di marcati condizionamenti sociali sui meriti individuali che vanno a minare le uguaglianze in termini di opportunità.

La meritocrazia pilastro della “terza via”

La meritocrazia è finita così per diventare un argomento di confronto fra individui, più che tra gruppi sociali. Un approccio individualistico che tende ad avvantaggiare di fatto le classi sociali più benestanti, producendo conseguenze dannose.

Young, attivista e labourista britannico, portò – con il suo manifesto politico Let Us Face the Future – Clement Attlee alla carica di primo ministro. Quest’ultimo, considerato il miglior primo ministro in tempi di pace, ebbe un chiarissimo impatto sociale nel suo mandato riuscendo a istituire, fra tutti, il Sistema Sanitario Nazionale del Regno Unito (National Health Service).

Young scriveva nell’Inghilterra degli anni Cinquanta, in un clima ideologico molto attento alle fratture fra gruppi sociali e alle disuguaglianze. Anni dopo la sua ironia non venne facilmente compresa da un buon pezzo di classe dirigente britannica e non solo, che, anche molto recentemente, tentò di spiegare e mettere in pratica alcune scelte politiche che fecero della meritocrazia uno dei pilastri della cosiddetta “terza via”. In Italia, ad esempio, uno dei partiti che più si identifica con la stagione di Tony Blair ha scelto di chiamare una scuola di formazione politica con lo slogan “Meritare l’Italia”.

Non si vuole ridurre questa discussione a uno scontro ideologico fra neoliberisti e socialisti o comunitaristi e individualisti, ma è del tutto evidente come una degenerazione ci sia stata e abbia trovato critiche proprio all’interno della cultura liberale. Già i primi grandi teorici dell’economia politica, come David Hume e Adam Smith, si espressero in maniera netta attribuendo al merito solo ed esclusivamente un ruolo morale che nulla poteva nel coordinamento sociale e nella risoluzione dei problemi.

L’implicito collettivismo della meritocrazia è inconciliabile con il suo esplicito individualismo e la disuguaglianza dei punti di arrivo è incompatibile con l’uguaglianza dei punti di partenza. Così come apparve molto evidente a economisti liberali del calibro di Friedrich von Hayek, quanto sia forzata e insostenibile l’interpretazione meritocratica del funzionamento del mercato. Ciò che viene dimostrato, al contrario, è che merito e retribuzioni si riferiscono a due entità diverse da non confondere: queste ultime si riferiscono al valore dei prodotti stabilito dal mercato, il quale è di pertinenza della collettività; il merito si riferisce al modo in cui un individuo ha inteso realizzare il suo piano di vita.

Tornando a un’analisi del fenomeno meritocratico e di come questo sgretoli il concetto di uguaglianza, risulta evidente che giudicare un individuo sulla base dei meriti o sulle ricompense ricevute significa cadere in una trappola.

Secondo il filosofo statunitense John Rawls, uno dei massimi esponenti della corrente di pensiero del liberalismo egalitario, è perfettamente legittimo che il talento – per quanto innato – possa emergere e quindi essere premiato, a patto che questo torni utile all’intera collettività. Le questioni che riguardano l’uguaglianza, le pari opportunità e la giustizia sociale vanno affrontate attraverso regole collettive in grado di assicurare a tutti i cittadini di poter giovare del benessere che deriva dall’efficienza. Una società giusta dovrebbe avere come obiettivo principale quello di sradicare l’ereditarietà sociale, le barriere che impediscono il pieno sviluppo di ciascuno e liberare le potenzialità di luoghi e persone. In quale culla si nasce, in quale parte del mondo, a Nord o Sud d’Italia, in città o in campagna, nascere donna o uomo. Tutti questi fattori oggi costituiscono alcuni fra i più importanti fattori di disuguaglianze.

Sebbene l’ideale romantico del “farcela da soli” restituisca alla società un senso di possibilità e di libertà, questo corrode la solidarietà e il comunitarismo e finisce per trascinarsi dietro un forte giudizio morale: se non hai successo è solo colpa tua, se sei povero è colpa tua. Come se la povertà fosse un terribile crimine. Ha fatto notare Thomas Piketty, in Capitale e ideologie, come questa “colpevolizzazione” dei più poveri non esistesse o, almeno, non fosse così esplicita in precedenti regimi basati sulla disuguaglianza, che sottolineavano invece la complementarità funzionale dei diversi gruppi sociali. Si è dunque finiti per cadere nel tranello che ha descritto benissimo Michael Sandel ne La tirannia del merito, quello della “retorica dell’ascesa” tipico dell’american dream.

Il ruolo della scuola

Un ruolo decisivo nella lotta alle disuguaglianze lo svolge inevitabilmente la scuola. La meritocrazia è sempre stata legata all’esigenza di trasformare radicalmente le scuole e le università. Il ruolo di ascensore sociale che svolge l’istruzione è indiscusso ma, allo stesso tempo, è evidente come l’accesso a questa sia del tutto differente a seconda della classe sociale di appartenenza. Il problema risiede proprio in questa fattispecie: come assicurare a tutti uguali opportunità di istruzione.

L’Italia è uno dei paesi con il maggiore indice di povertà educativa. Secondo l’Osservatorio Con i Bambini oltre 1 milione e 200 mila minori vivono in povertà assoluta e altri 2 milioni sono in povertà relativa. Tale situazione ha alimentato l’espansione scolastica e la convinzione che per raggiungere una maggiore uguaglianza l’istruzione di massa avrebbe svolto il suo ruolo. Negli anni Cinquanta e Sessanta l’aumento dell’istruzione andò di pari passo con il calo delle disparità dovute all’ereditarietà sociale. Nonostante questo, alcune politiche scolastiche degli ultimi anni sono arrivate al punto di mettere in discussione l’utilità della scuola stessa nell’emancipazione professionale.

Nelle società preindustriali il ruolo dell’istruzione era riconosciuto come indispensabile per avere la possibilità di occupare un posto influente nella società, ma potevano permettersela solamente i figli della borghesia industriale. Nel dopoguerra, le democrazie seppero battersi per rendere l’istruzione obbligatoria per tutti, non solo per le èlite. 

Vi era la convinzione che conoscere la storia, il latino e la matematica avrebbe trasformato le società e concesso pari opportunità di crescita a ognuno. Oggi, sulla scia di politiche neoliberiste del tutto preimpostate sulla necessità di trovare una collocazione nel mercato a ogni individuo, si è arrivati a mettere in discussione quell’impianto e addirittura a porre dubbi sull’utilità vera e propria dell’istruzione. C’è stata una collocazione implicita su un tema assai disgregante come quello dell’inutilità di alcune materie nell’istruzione di massa a fronte dell’utilità del conoscere i mestieri e a imporre l’alternanza scuola-lavoro come metodo di pronta immissione nel mercato del lavoro, senza tener presente le inclinazioni di studenti sedicenni e provando a delimitare il recinto delle conoscenze a chi davvero poteva permettersele.

Un processo distorto che ha portato, specialmente negli ultimi anni, a una nuova tirannia che si è andata ad affiancare a quella del merito: quella delle competenze.

L’egemonia dei competenti

Richiamando Raffaele Alberto Ventura, potremmo rievocare quella che lui, in Radical choc, definisce «élite competente» o «i migliori», per proporre una terminologia che di frequente sentiamo e leggiamo nei notiziari e nei giornali dei primi mesi del 2021. «Una classe che preleva una quota della ricchezza totale in cambio di prestazioni cognitive specializzate».

Una sorta di società delle credenziali. Quello che rende più curioso questo universo è il fatto che, quasi sempre, il dibattitto sulle competenze non appassiona la società ma solamente altri competenti«A rimettere in discussione la competenza dei competenti sono spesso delle frange della stessa classe competente». Come i cicli economici, anche quelli culturali spesso hanno bisogno di un reset. Questa necessità è stata espressa, in modo rabbioso e babilonico, dal sentimento populista che ha dominato la scena mediatica degli scorsi anni, quando venne costruita l’idea che se frequenti una buona università puoi superare la crisi economica, la perdita del posto di lavoro, le disparità.

Le competenze, cosìfacendo, hanno smesso di occuparsi dei bisogni delle persone, rinunciando ad affrontare i problemi attraverso un percorso politico. Lo hanno fatto, bensì, smarrendosi in dibattiti labirintici e, spesso, edonistici e autoassolventi. Oggi, complice la pandemia legata al Covid-19, le competenze stanno invece svolgendo un ruolo importante: quello di servizio verso le proprie comunità.

Le disuguaglianze del terzo millennio, seguendo l’approccio elitario, hanno finito per essere identificate come giuste, perché rappresentano la conseguenza di un processo scelto liberamente nel quale ognuno ha le stesse opportunità di accesso all’istruzione e al mercato del lavoro e nel quale ciascuno gode naturalmente del vantaggio derivante dal patrimonio dei più ricchi, che – casualmentefiniscono per essere i più competenti, i più meritevoli, i più utili arrivando, infine, a scontrarsi tra loro.

Si è arrivati a concludere che le responsabilità legate ai divari in questione non risiedevano nelle storture della globalizzazione e delle società capitalistiche dei consumi, ma nei cosiddetti «deplorevoli». Li aveva definiti così Hillary Clinton nel 2016, prima di perdere le elezioni presidenziali negli Stati Uniti contro Donald Trump. Si andava a ricercare le cause della crisi non nelle politiche che l’hanno generata ma, bensì, nei cittadini.

L’adesione a una visione meritocratica e individualistica è parsa come un insulto a tante famiglie e lavoratori. Un insulto che si è trasformato in una freccia ben piazzata nella balestra della destra populista, capace di scoccarla nel cuore del malessere. Lo ha raccontato in maniera perfetta Claudia Durastanti nel suo romanzo La Straniera: la meritocrazia americana come una frode, la povertà non come una condizione sociale ma come una patologia.

Una nuova prospettiva

«La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della disuguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla disuguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono: il talento non è un dono secondo questa interpretazione, è un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi.

Così, se due bambini alla nascita nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente. E così, quando quei due bambini andranno in pensione, la disuguaglianza tra di loro si sarà moltiplicata». Con queste parole Papa Francesco è intervenuto a Genova nel 2017 durante un incontro con il mondo del lavoro, stanando – molto prima della politica – il malessere che le società di tutto il mondo vivevano e stavano esprimendo.

La crisi sanitaria legata al Covid-19 ha fatto chiarezza ed è stata capace di restituire dignità a milioni di lavoratori non laureati o impegnati in settori non ritenuti prestigiosi, così come è emerso centrale il ruolo dei competenti e degli esperti messo al servizio delle comunità. Ci si è resi conto di quanto fosse importante il settore pubblico e la sanità, l’occupazione nell’alimentare e nella logistica. È tornato centrale il ruolo della scuola, proprio perché ci si è misurati con la didattica a distanza. È riemerso il ruolo fondamentale delle comunità. Si è invertita quella tendenza che vedeva nel mondo liberal i connotati dell’efficienza e del progresso, mentre identificava nel comunitarismo una nostalgia verso strutture sociali e relazioni perdute.

Interrogarsi sul significato della parola “meritocrazia” significa interrogarsi sulla democrazia. Sulla sua crisi, sulle tensioni che l’hanno indebolita generando disuguaglianze.

Un recente articolo sulla rivista «il Mulino», scritto da Emanuele Felice e Giuseppe Provenzano, ha provato a tracciare un nuovo sentiero per le forze socialiste e liberali. Il dibattito su merito e uguaglianza non è esonerato dal percorso segnato: posizioni liberali ed egualitarie forti devono mirare alla democratizzazione della vita culturale e politica, dove non regnino le differenze fra individui ma il sentirsi comunità.

Perché mai nessuno ce la fa davvero da solo. Il mutamento così veloce delle economie e delle società impone un ripensamento dei nessi fra responsabilità individuale e collettiva. Nella sua accezione democratica, l’uguaglianza delle opportunità trova fondamento in politiche redistributive. Non può esistere senza un accesso universale all’istruzione e senza la rimozione delle condizioni economiche e sociali che si frappongono fra gli individui e le proprie aspirazioni.

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