9 Maggio 1978: assassinio Moro, la fine dell’inizio. “Forse ne avremo scrupolo”

di Pietro Maria Sabella

9 Maggio 1978: assassinio Moro, la fine dell’inizio. “Forse ne avremo scrupolo”

di Pietro Maria Sabella

9 Maggio 1978: assassinio Moro, la fine dell’inizio. “Forse ne avremo scrupolo”

di Pietro Maria Sabella

41 anni “appena”, eppure sembra trascorso un secolo o qualcosa in più. Dell’Italia del ’78 questa generazione conosce ben poco. Si affanna ad utilizzare una lente di ingrandimento per comprendere, quando desidera davvero farlo, le dinamiche poltico-sociali di un’Italia che davvero non esiste più, svanita, bruciata, proprio in seguito ai fatti del 9 maggio del 1978.

Marco Damilano, in uno dei suoi ultimi saggi, “Un atomo di verità”, definisce questa data come una sorta di nostrano 11 settembre, in cui tutto, nella politica e nella coscienza italiana, è finito per cambiare davvero. L’inizio della fine della “Prima Repubblica”, culminata con Tangentopoli e la “caduta degli dei”.

L’assassinio di Aldo Moro, allora Presidente della DC, da parte delle BR, segna la cruenta rottura del tentativo da parte della compagine della DC più saggia, più <<flessibile>> (per come veniva già allora definita) di conferire una svolta allo stallo in cui versavano le istituzioni repubblicane e i partiti stessi, incapaci di rinnovarsi e dare una risposta certa ai grandi problemi economici e sociali che hanno attraversato tutto il decennio del “piombo”.

L’avversata strategia politica di Aldo Moro si fondava sulla necessità di emarginare e circoscrivere i tentativi di eversione finalizzati a delegittimare la democrazia repubblicana. L’ultimo ‘incontro con Enrico Berlinguer, avvenuto nel marzo del ’78, avrebbe dovuto determinare, per la prima volta, l’ingresso del PCI nel governo del Paese; in quel momento, i due più grandi personaggi della politica pubblica nazionale erano consapevoli di dovere adottare tutte le misure opportune per garantire l’ordine democratico, in un Paese sconquassato dal terrorismo nero e rosso. 

“In un Paese dalle strutture fragili e dalla passionalità intensa”, scopo di Aldo Moro era quello di avviare la politica verso un percorso rinnovato, in grado di assorbire e gestire nell’alveo delle dinamiche parlamentari le spinte sovversive che avevano seminato morte in mezza Italia. Ma l’Italia era nel mezzo di una crisi mondiale, in cui si era spaccati fra nord e sud, oriente ed occidente e già negli anni precedenti, in qualità di Ministro degli Esteri, Aldo Moro si era battuto nel superamento dei muri, tanto da scontrarsi apertamente con Kissinger che lo aveva invitato a non alimentare le aperture ai comunisti.

Bisognava essere coraggiosi e fiduciosi, Aldo Moro intendeva vivere il tempo a lui dato, con tutte le sue difficoltà. Impegnato a risolvere la crisi di governo che in quei mesi caratterizzava il Parlamento italiano, il Presidente della DC aveva “vinto” le elezioni insieme ad Enrico Berlinguer, dato che il PCI aveva raggiunto il 34,4% dei consensi. Ma non solo: in quel momento storico, anche il PSI di Bettino Craxi stata emergendo con forza, quale elemento del “rinnovamento”, del “cambiamento”.

Il 28 febbraio del ’78 si tenne l’assemblea della DC. In molti non volevano costruire alleanze con il PCI per non perder il consenso, in un’epoca di guerra fredda, di contrapposizione ideologica fra oriente ed occidente. Ma anche il PCI non voleva avere nulla a che fare con “il partito del potere e degli scandali”.

Aldo Moro fa qualcosa di nuovo: comprende l’emergenza dell’ordine pubblico e denuncia il potere di cui egli stesso fa parte, costituendo quasi una sorta di processo fittizio della classe dirigente della DC, tanto auspicata da Pier Paolo Pasolini, il quale, comunque, vedeva in Moro “il meno implicato”.

Moro denunzia la crisi latente dell’ordine democratico e capisce che non poteva lasciare alle opposizioni il compito di fagocitare le forze extra-parlamentari che avevano quale fine quello di determinare la fine stessa della Repubblica.

Aldo Moro sosteneva che non fossero il potere, i numeri, a garantire il potere stesso, ma l’intelligenza; la flessibilità era infatti l’elemento strategico per “salvare” la democrazia.

L’Italia era al centro del processo violento di separazione e contrapposizione che caratterizzava il clima livello internazionale. Aldo Moro stava travalicando i confini imposti da Yalta, undici anni prima della caduta del Muro di Berlino, per porre fine a quella futile contrapposizione che nel nostro Paese, in particolare, è stata sempre molto forte. 

Probabilmente quello fu l’ultimo atto della politica repubblicana per come stata intesa all’indomani della seconda guerra mondiale e per come avrebbe dovuto essere intesa fino ai giorni nostri.

Si doveva correre un rischio ed Aldo Moro intendeva farlo con gli strumenti della politica, della riflessione, non del populismo. L’Italia necessitava di una risposta unica e univoca. Solo la politica avrebbe potuto garantire il superamento di tutte quelle fragilità mai più sanate, di quelle ferite mai più cucite negli atti e nelle scene della “Seconda” e “Terza” Repubblica.

Ma ciò che più sconvolge della morte di Aldo Moro e della crisi politico-istituzionale sviluppatasi fino alla metà degli anni ’80 e tragicamente conclusa con i processi del ’92 e del ’93, è che la Repubblica sembra non aver voluto ricordare. Si è assistito ad una progressiva frantumazione dell’eredità di Moro, culminata con la morte di Berlinguer nell’84. E in quegli anni, di passaggio, fra lotte sociali, crescita del debito pubblico ed emersione dei nuovi strumenti di comunicazione privata (la televisione milanese) Aldo Moro divenne il capro espiatorio, – probabilmente-  voluto da molti, il più buono fra tutti, il “meno implicato”, l’unico a dover pagare gli errori consapevolmente commessi da parte di altri.

Ed ecco che il funerale di Stato non poteva che rivelarsi una pantomima, visto che si svolgeva, peraltro, senza il corpo di Moro stesso. Non bastarono le sferzanti parole scritte subito dopo da Leonardo Sciascia, tradotte nel pamphlet “L’Affaire Moro” a scuotere le menti e i corpi di tutti coloro i quali sono sopravvissuti a Moro per “morire” sui banchi dei Tribunali o in qualche strano tragico evento. Forse poteva e doveva sopravvivere la Politica a Moro, ma il suo erede naturale, Piersanti Mattarella venne ucciso qualche anno dopo e con lui finì anche quel nuovo filone di rinnovamento che la DC stava ricostruendo partendo dalla Sicilia, da sempre, regione che determina tutti gli sviluppi futuri e che voleva contrastare i Lima e i Ciancimino, così forti da rappresentare il “meglio” della DC negli anni ’80.

Aldo Moro ha interpretato al meglio il senso del viaggio della vita, consapevole che non avrebbe mai raggiunto la meta. Nonostante questo ha percorso interamente la sua strada mantenendo nel volto una serenità di spirito che la nostra Repubblica non ha mai più conosciuto.

Pietro Maria Sabella

(Marzo ’78, recapitata il 5 maggio ’78)

Mia dolcissima Noretta,

dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell’incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l’indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della D.C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. Essa va detto con fermezza così come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. E’ poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall’idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare. E questo è tutto per il passato. Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in una unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani.
Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile.
Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienmi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto anto Luca) Anna Mario il piccolo non nato Agnese Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto.
Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta.
Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo

Senza firma

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