La Giornata internazionale della donna, celebrata l’8 marzo, è stata istituita per onorare la donna e quale simbolo delle conquiste sociali e politiche femminili. Con il tempo è divenuta anche una delle giornate deputate ad ospitare riflessioni riguardo le discriminazioni e le violenze di cui ancora oggi le donne sono vittime.
Perché? Probabilmente per un lungo lasso di tempo abbiamo avuto l’illusione di aver raggiunto importanti traguardi, definitivi e duraturi, perché si era ancora preda ancora di una visione e di un punto di vista maschile. Con il passare del tempo le nebbie si sono in parte diradate, consentendoci di avere piena visuale e consapevolezza di quanto potessero considerarsi parziali quelle conquiste. Molto è stato fatto, dunque, ma tanta è la strada ancora da percorrere.
Indubbiamente la giornata di oggi, in questo momento storico, ci pare avvolta dalle tenebre.
I disagi e le sofferenze degli ultimi due anni, lungi dal lasciare il posto a uno spiraglio di luce, sono stati sostituiti da un teatro di guerra caratterizzato da instabilità e imprevedibilità. Una sensazione di vulnerabilità e impotenza ci attanaglia.
In questo contesto, è davvero difficile interrogarsi sul futuro. Vale ancora, la pena, tuttavia, nonostante l’angoscia, chiedersi cosa si possa davvero fare per costruire una società più accogliente e meno ostile nei confronti delle donne.
I gap che ancora oggi caratterizzano le società sono molteplici. Negli ultimi anni il dibattito sulle quote rosa, ha lasciato spazio all’approvazione di leggi in materia di parità salariale [in Italia lo scorso 5 novembre è stata approvata la legge n. 162]. Innumerevoli studi [Donne nei Ruoli di Vertice. Aspen Institute Italia, 2014] hanno certificato come in moli atenei la percentuale di donne iscritte e laureate sia nettamente superiore a quella degli uomini.
La tendenza, tuttavia, si inverte spaventosamente quando si analizza l’ingresso nel mondo del lavoro e l’ascesa verso ruoli apicali. Anche questo ha spinto alcuni tra i più importanti atenei del mondo a organizzare corsi di enpowerment, finalizzati a far comprendere ad executive e studentesse come incrementare le proprie competenze e acquisire o coltivare doti di leadership [e.g. Cambridge Rising Women Leaders Programme].
Accanto a queste problematiche, la società italiana, che si candida ad essere sempre più multietnica, deve fare i conti con la necessità di garantire nella quotidianità la vicinanza delle istituzioni a tutte coloro che coloro che possono essere vittime di maltrattamenti per la sola ragione di appartenere al genere femminile.
A questo obbligazione, che pende sulla testa di qualsivoglia agente pubblico, dall’insegnante, al medico, al rappresentante delle forze dell’ordine va ottemperato quotidianamente perché molto spesso i soggetti predetti rappresentano il primo baluardo per la salvezza di giovani donne, anche minori.
L’aiuto, la prevenzione, il perseguimento della giustizia a volte rappresentano un ausilio non da poco affinché le vittime di reati odiosi come quelli che caratterizzano la violenza di genere possano guardare avanti e farlo con la necessaria serenità. Queste azioni acquistano un significato ulteriore quando sono dirette nei confronti di minori, spesso sole, spesso vittime di famiglie chiuse e disfunzionali, che devono vedere non pregiudicato il loro diritto a intraprendere un nuovo cammino senza essere accompagnate da un pesante fardello di ingiustizia.
Si è avuta notizia in questi giorni della vicenda di una dodicenne salentina, che la madre, una trentunenne italiana convertita all’Islam, aveva promesso in sposa, con l’avallo del nuovo compagno pakistano, ad un parente di quest’ultimo. La ragazza era stata allontanata da scuola, le era stato vietato l’accesso ai social network e l’uso dello smartphone e è stata costretta a indossare il velo. A salvarla la denuncia presentata dal padre, anch’egli salentino, ma residente per questioni lavorative, in Germania.
Dalla denuncia sono scaturiti due procedimenti, uno presso il Tribunale dei Minori competente per territorio, che ha revocato la potestà genitoriale alla madre, e uno presso la Procura ordinaria competente, finalizzato ad accertare il compimento di reati quali costrizione o induzione al matrimonio, maltrattamenti in famiglia, sottrazione e trattenimento di minore all’estero, abbandono di minori e violenza sessuale.
Mentre ancora non è chiara la sorte di Saman Abbas, la diciottenne di origini pakistane residente in Emilia Romagna, dapprima collocata in una casa famiglia in seguito alla denuncia presentata perché i genitori avrebbero voluto che contraesse matrimonio in Pakistan contro la sua volontà e poi, con molta probabilità, uccisa dagli stessi genitori e da altri parenti, poiché il suo rifiuto aveva gettato il disonore sull’intero nucleo familiare. Nel nostro Paese registriamo molti casi costrizione o induzione al matrimonio.
Lo scorso gennaio sono giunte a conclusione le indagini preliminari in relazione al caso di una quattordicenne di origini bengalesi, residente a Ostia. La ragazza, che si era confidata con un’insegnante, aveva deciso di ribellarsi ad un destino già scritto, quello di contrarre matrimonio con un uomo sconosciuto residente in Bangladesh. Nei piani della sua famiglia avrebbe dovuto lasciare la scuola, adottare un abbigliamento consono alla sua condizione di promessa e infine essere data in sposa, ma i sogni della ragazza, che avrebbe voluto continuare a studiare e diventare medico, hanno avuto la meglio.
La costrizione o induzione al matrimonio, in seguito all’entrata in vigore del Codice Rosso, la legge 19 luglio 2019 n. 69, è divenuta un’autonoma fattispecie di reato. Tra l’ultimo trimestre del 2019 e il primo semestre del 2021 sono stati registrati 24 casi di matrimoni forzati [fonte: Report Costrizione o induzione al matrimonio del Ministero dell’Interno]. In un terzo di tali casi le vittime sono minorenni (il 9% infraquattordicenni e il 27% tra i 14 e i 17 anni).
La nazionalità prevalente è pakistana. Nel 73% dei casi gli autori del reato sono stati uomini anche in questo caso di nazionalità prevalentemente pakistana, seguita da quelle albanese, bengalese, bosniaca. Un calo fisiologico del fenomeno si è avuto nel 2020 in ragione dell’impossibilità di muoversi e di recarsi in paesi esteri a celebrare le nozze.
Una corretta analisi dei dati, dunque, ci indica che interessi circa 20 vittime ogni anno, anche se si tratta di casi emersi, ovvero oggetto di denuncia, mentre probabilmente più ampio sarà il c.d. numero oscuro: casi che non sfociano in denunce formali all’autorità giudiziaria poiché maturati all’interno delle mura domestiche e dunque di ambienti chiusi e di dinamiche difficili da scardinare.
L’appartenenza al genere femminile della quasi totalità delle vittime, che divengono delle cose da dover scambiare o sacrificare per salvaguardare la dignità della famiglia, colloca questo delitto a pieno titolo tra quelli che contribuiscono a definire la violenza di genere.
Nei casi più estremi e complessi, il dissenso della vittima scatena un vero e proprio femminicidio. Come nelle più classiche delle dinamiche che accompagnano la violenza di genere, quando viene deciso il matrimonio la vittima viene isolata, le viene impedito di frequentare la scuola, di usare lo smartphone o qualsiasi social network. Ogni più piccola ribellione viene sedata con la violenza.
Una società che possa dirsi civile non può disinteressarsi, a qualsiasi livello, di questi fenomeni e è chiamata, anzi, a cooperare tutta, ponendo fine a contraddizioni interne che molto spesso l’accompagnano e che, con riferimento al tema dell’immigrazione, sarebbero tentate di perseguire la strada del modello multiculturalista puro, non rifuggendo dalle pericolose dinamiche del diritto penale culturalmente orientato.