30 luglio 1945
L’affondamento della USS Indianapolis

30 luglio 1945. L'affondamento della USS Indianapolis

Il racconto dell'attacco giapponese all'incrociatore americano

di Simone Pasquini

30 luglio 1945
L’affondamento della USS Indianapolis

30 luglio 1945. L'affondamento della USS Indianapolis

30 luglio 1945. L'affondamento della USS Indianapolis

di Simone Pasquini

30 luglio 1945
L’affondamento della USS Indianapolis

30 luglio 1945. L'affondamento della USS Indianapolis

Il racconto dell'attacco giapponese all'incrociatore americano

di Simone Pasquini

Il 1975 fu un anno particolare per gli Stati Uniti.

In aprile la conquista di Saigon da parte delle truppe comuniste del Vietnam del Nord aveva posto fine alla mattanza che da 12 anni aveva mietuto così tante giovani vittime americane.

Con l’arrivo dell’estate il Paese a stelle e strisce, ormai abituato alle emozioni forti, venne letteralmente scosso da un vero e proprio “caso” cinematografico: un giovanissimo regista emergente chiamato Steven Spielberg aveva appena terminato l’adattamento del fortunato romanzo dello scrittore Peter Benchley.

Il film narrava la storia di una tranquilla e ridente località di mare della costa atlantica degli Stati Uniti che, nel bel mezzo della stagione balneare, veniva stravolta dagli attacchi di un ferocissimo e mastodontico squalo bianco. Il film – impossibile non riconoscerlo – era “Jaws”, distribuito poi in Italia con il titolo “Lo Squalo”, acclamato ancora oggi dalla critica come uno dei migliori thriller di tutti i tempi.

Uno dei rari film appartenenti a quella sottile categoria di pellicole capaci di condizionare per sempre l’immaginario collettivo. Ma a questo punto vi starete chiedendo: cosa ha a che fare “Lo Squalo” con l’anniversario di oggi? Tranquilli, ci stiamo arrivando.

Chi avesse visto questo imperdibile film ricorderà sicuramente una delle scene più emblematiche di tutta la pellicola, un vero gioiello del climax e della suspense: i due co-protagonisti – lo sceriffo Brody ed il barbuto oceanografo Hooper – si trovano a bordo della barca del cacciatore di squali Quint, magistralmente interpretato da Robert Shaw.

Mentre sono alle prese con una sonora sbronza, i nostri tre eroi si divertono a “gareggiare” confrontando le varie cicatrici sui loro corpi. Ad un certo punto Brody e Hooper notano sull’avambraccio sinistro di Quint una cicatrice particolare. Sollecitato dalle domande, il cacciatore di squali ammette che lì un tempo si trovava un tatuaggio poi rimosso. Il tatuaggio riportava: USS Indianapolis.

Per raccontare questa storia bisogna andare indietro di circa settant’anni e tornare all’estate del 1945. La notte del 30 luglio, nel bel mezzo del Pacifico Occidentale, una nave da guerra sfila silenziosa e quasi invisibile fra i flutti color petrolio.

L’incrociatore pesante USS Indianapolis era una moderna nave da guerra entrata in servizio nella Marina degli Stati Uniti nella prima metà degli anni ’30. Non era certamente una delle unità più recenti della Marina statunitense, ma ciò non di meno, dopo il bombardamento giapponese di Pearl Harbour, l’unità si era comportata egregiamente nel corso dei quasi quattro anni di guerra nel Pacifico.

Inoltre, non tutti gli equipaggi della flotta del Pacifico potevano dire di aver partecipato sia alla battaglia di Iwo Jima che a quella di Okinawa, quest’ultima terminata poco più di un mese prima. Ma la missione che la Indianapolis aveva appena portato a termine era stata tutto meno che una missione convenzionale.

Poche settimane prima la nave, comandata dal capitano Charles Butler MacVay, aveva lasciato la baia di San Francisco diretta verso le Hawaii. Da lì, l’incrociatore aveva fatto rotta verso la piccola isola di Tinian, nell’arcipelago delle isole Marianne settentrionali. Tinian – così come la gemella più grande, Saipan – durante la guerra erano state occupate dai giapponesi e trasformate in due imprendibili roccaforti. Solo nel 1944, dopo due sanguinosissime battaglie, i marines americani erano riusciti a conquistarle.

1945
Parte dell’equipaggio dell’incrociatore Indianapolis

Lì vennero costruiti numerosi aeroporti, dai quali quasi quotidianamente decollavano i super-bombardieri B-29 diretti a sganciare il loro carico di morte sul Giappone. E proprio uno di questi bombardieri – soprannominato Enola Gay, dal nome della madre del suo comandante – stava aspettando l’arrivo del nostro incrociatore. L’Indianapolis, infatti, trasportava i componenti essenziali della prima bomba atomica, compresa la carica di Uranio 235 che, pochi giorni dopo, sarebbe stata sganciata sulla città di Hiroshima.

Terminata con successo la missione, la nave ripartì subito dalla piccola isola delle Marianne procedendo verso Ovest, in direzione delle Filippine, dove avrebbe gettato l’ancora in attesa di ulteriori istruzioni. L’umore a bordo era piuttosto alto, soprattutto perché il viaggio di andata era trascorso senza nessun tipo di intoppi, sebbene l’intelligence della Marina avesse comunicato un serio rischio di attacco da parte di sottomarini giapponesi.

Per motivi mai del tutto chiariti, nonostante il rischio dei sommergibili nemici, la nave non solo procedeva a velocità moderata, ma soprattutto lo faceva procedendo in linea retta, ignorando così di adottare la tipica andatura a “zigzag”, molto utile nell’elusione di potenziali siluri nemici in arrivo.

Sfortunatamente, in quel braccio di mare era da alcuni giorni in agguato il sommergibile giapponese I-58, il cui periscopio facilmente inquadrò le quasi 10.000 tonnellate della nave, illuminate dalla luce della luna. Improvvisamente una scossa enorme scosse la nave da cima a fondo: due siluri avevano colpito in pieno sotto la linea di galleggiamento. L’acqua iniziò ad inondare i livelli inferiori dello scafo, che in pochi minuti iniziò a sbandare.

Al segnale “Abbandonare la nave” i circa 900 marinai ancora in vita si fiondarono in acqua, sebbene non fosse stato possibile calare in mare tutte le lance di salvataggio. La nave affondò in poco più di 10 minuti.

A questo punto ebbe inizio la tragedia per cui la storia dell’Indianapolis è ancora così famosa negli Stati Uniti. Sebbene i marconisti fossero riusciti ad inviare ben tre messaggi di SOS, nessuno di questi ebbe seguito. Per 4 giorni i naufraghi rimasero in balia delle onde, molti di loro completamente immersi in acqua poiché non avevano trovato posto sulle scialuppe o su galleggianti di fortuna.

Ogni ora trascorsa portava via con sé numerose vittime: molti uomini feriti durante l’affondamento, anche con lesioni lievi, morirono dissanguati poiché l’acqua salata impediva la coagulazione del sangue nelle ferite; molti di più, per una tragica ironia, pur essendo letteralmente immersi nell’acqua, perirono di disidratazione sotto gli implacabili raggi del sole del Pacifico.

Ma ciò che rese celebre la vicenda fu l’orrore degli attacchi degli squali: fin dalle prime ore successive all’affondamento, nugoli di squali, attirati dai forti rumori del relitto che precipitava negli abissi, iniziarono a tormentare i gruppi di naufraghi. Talvolta gli schiamazzi ed i movimenti convulsi dei marinai distoglievano gli animali dal loro proposito.

Ma, giorno dopo giorno, erano comunque decine e decine i marinai che venivano dilaniati vivi dalle fauci dei predatori. La mattina del 2 agosto un idrovolante della Marina, in casuale pattugliamento in quel quadrante, si trovò a sorvolare la zona dell’affondamento. Attirato da enormi chiazze di nafta sulla superfice dell’Oceano, il tenente Wilbur C. Gwinn scese di quota fino a distinguere chiaramente i gruppi di sopravvissuti.

Dopo aver realizzato la portata del disastro, subito gli aviatori misero in moto la machina dei soccorsi.

Tuttavia, la difficile posizione del luogo fece sì che solo l’8 agosto fu possibile trarre in salvo gli ultimi sopravvissuti. Delle 900 anime lanciatesi in acqua la notte del 30 luglio, solo 313 erano riusciti a superare quella terribile prova.

L’impatto della vicenda in patria fu enorme, così come la pubblica indignazione, tanto che il comandante MacVay fu sottoposto al giudizio di una corte marziale decisa ad accertare le sue eventuali responsabilità nel disastro.

E sebbene il capitano venisse poi assolto da tutte le accuse, il peso delle responsabilità addebitategli dall’opinione pubblica – soprattutto dai familiari delle vittime – fu tale da spingerlo, nel novembre del 1968, a spararsi alla tempia con la sua pistola di ordinanza.

Il Capitano MacVay davanti alla Corte Marziale

A testimonianza di quanto questa vicenda sia rimasta impressa nella memoria collettiva di buona parte della popolazione americana, nel 2007, proprio nella città di Indianapolis, è stato inaugurato un museo ed un memoriale dedicati alla tragica vicenda dello sfortunato incrociatore.

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