Giovanni Brusca: negato il ravvedimento, negati i domiciliari.

di Ludovica Tripodi

Giovanni Brusca: negato il ravvedimento, negati i domiciliari.

di Ludovica Tripodi

Giovanni Brusca: negato il ravvedimento, negati i domiciliari.

di Ludovica Tripodi

“U Verru”, il porco, ecco chi è Giovanni Brusca. Capo del Mandamento di San Giuseppe Jato, piccolo paese di pastori e contadini immerso nel silenzio della valle dello Jato, a due passi da Corleone e da Totò Riina.

“U Scannacristiani”, ecco chi è Giovanni Brusca. Colui che “ha commesso e ordinato personalmente centocinquanta delitti”, tra i quali il più efferato, quello a Giuseppe Di Matteo, il bambino sciolto nell’acido, di cui Giovanni Brusca, è sempre opportuno ricordarlo, era padrino di battesimo.

Fu arrestato il 20 maggio 1996 ad Agrigento e da allora detenuto nel carcere romano di Rebibbia, dove divenne collaboratore di giustizia. Tornato negli ultimi giorni agli onori della cronaca per l’ennesima richiesta da parte dei suoi legali degli arresti domiciliari, negata in primis dal Tribunale di Sorveglianza di Roma e, nella giornata di martedì (8 ottobre 2019), anche dalla Suprema Corte di Cassazione, la sua vicenda ha risollevato il dibattito in merito alla disciplina vigente nel nostro Paese che regola un sistema c.d. premiale nei confronti dei collaboratori di giustizia.

La prima sezione penale della Suprema Corte infatti, al termine della camera di consiglio, ha rigettato il ricorso presentato dai legali del Boss di San Giuseppe Jato, negando il ravvedimento di Giovanni Brusca e quindi la concessione dei benefici penitenziari, nonostante la Procura Nazionale Antimafia avesse dato parere positivo.

 Ravvedimento, ecco la parola chiave.

Esso è previsto dall’ articolo 16-nonies del D.L. 8/1991, convertito in legge 82/1991, come introdotto dall’art.14 della L.45/2001 e, secondo la giurisprudenza della stessa Prima Sezione della Suprema Corte di Cassazione, il ravvedimento non può essere oggetto di una presunzione formulabile soltanto sull’avvenuta collaborazione del soggetto e sull’assenza di collegamenti persistenti dello stesso con la criminalità organizzata. È richiesta invece la presenza di ulteriori elementi che siano in grado di dimostrare, anche sotto forma di ragionevole probabilità, l’effettiva sussistenza di tale ravvedimento (Cass. Pen., Sez. I, 18/11/2004, n. 48505, Furioso). Quali siano questi elementi, non è facile definirlo. Nel caso specifico, inerente alla storia criminale di Giovanni Brusca e al suo, non meno rilevante, percorso come collaboratore di giustizia, le opinioni sono discordanti. Interessante leggere sul “Corriere della Sera” (8 ottobre 2019) l’intervista di Giovanni Bianconi a Piero Grasso, già giudice a latere del maxi-processo a Cosa Nostra, procuratore di Palermo e procuratore nazionale antimafia: il senatore Grasso, nel distinguere la figura di Brusca da quelle di Riina e Provenzano, afferma che nel Boss di San Giuseppe Jato il ravvedimento ci sia effettivamente stato, avendo egli rotto ogni legame con Cosa Nostra e avendo reso dichiarazioni “che hanno sempre trovato riscontri e conferme”. I due elementi, come sappiamo, non bastano alla nostra giurisprudenza per concedere un beneficio come la detenzione domiciliare. La domanda a questo punto è spontanea: non basta neanche tenere in considerazione che Giovanni Brusca, in quanto collaboratore di giustizia, non sia mai stato condannato alla pena perpetua, come previsto per tutti i mafiosi, e che per questo, tra due anni la sua pena sarà estinta e che, ancora, gode da anni di numerosi benefici, paradossalmente, più “premiali” rispetto agli arresti domiciliari? Quale il valore che da cittadini vogliamo dare alla figura del collaboratore di giustizia? Quale il valore che vogliamo dare ad un mafioso, pluriomicida che collabora con la giustizia e che per questo e da questo si aspetta di ottenere dei benefici che ovviamente non possono che afferire al vero significato che la pena dovrebbe avere nel nostro ordinamento, ovvero quello della rieducazione del detenuto?

Allo stesso tempo, il lato umano. Importante, a mio parere, riportare le parole di Maria Falcone, sorella di Giovanni Falcone, che, insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, fu ucciso dal tritolo azionato proprio dalla mano di Giovanni Brusca.

“Fermo restando l’assoluto rispetto per le decisioni che prenderà la Cassazione, voglio ricordare che i magistrati si sono già espressi negativamente due volte sulla richiesta di domiciliari presentata dai legali di Giovanni Brusca. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma, solo ad aprile scorso, negandogli la scarcerazione, ha avanzato pesantissimi dubbi sul suo reale ravvedimento.  Mi limito a citare la motivazione del provvedimento in cui il tribunale, testualmente, ha scritto che non si ravvisava in Brusca un mutamento profondo e sensibile della personalità tale da indurre un diverso modo di sentire e agire in armonia con i principi accolti dal consorzio civile. Ricordo ancora che Giovanni Brusca, proprio grazie alla collaborazione con la giustizia, ha potuto beneficiare di premialità importanti: oltre a evitare l’ergastolo per le decine di omicidi che ha commesso – tra questi cito solo quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido a 15 anni- ha usufruito di 80 permessi. Il suo passato criminale, l’efferatezza e la spietatezza delle sue condotte e il controverso percorso nel collaborare con la giustizia che ha avuto luci e ombre, come è stato sottolineato nel tempo da più autorità giudiziarie lo rendono un personaggio ancora ambiguo e non meritevole di ulteriori benefici”.

Puntuali e pertinenti (con l’oggetto del nostro articolo), i giudici di Strasburgo.

Martedì (8 ottobre 2019) la Grande Chambre della Corte Europea ha ritenuto l’istituto italiano dell’ergastolo ostativo, il quale vieta permessi e sconti di pena per i mafiosi che non collaborino con la giustizia, incompatibile con i diritti fondamentali dell’uomo, definendone il trattamento degradante e inumano. Giuridicamente, quindi, la Corte ha ritenuto non legittimo l’articolo 4 dell’Ordinamento penitenziario italiano, che disciplina, appunto, l’ergastolo ostativo, meglio conosciuto come “fine pena mai”, per contrasto con l’articolo 3 CEDU, che vieta trattamenti inumani e degradanti per i carcerati. Molte le perplessità a seguito di questa sentenza: possiamo evincere da questa pronuncia una mancanza di conoscenza della reale gravità e profonda incidenza che il fenomeno mafioso ha sul nostro paese? Quanto è difficile dimostrare quando il pentimento corrisponda ad un rifiuto e ad una convinta dissociazione dal fenomeno mafioso? Ma soprattutto: quanto è limitante per uno Stato, aderente al progetto europeo, dover sottostare a decisioni sovranazionali su questioni che riguardano in modo netto e indistricabile il nostro sostrato sociale?

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