Tarots – The Emperor

di Federica Picasso

Tarots – The Emperor

di Federica Picasso

Tarots – The Emperor

di Federica Picasso

Carta numero IV

 

“Perché non possediamo che un unico Sovrano.”

 

Il mattino stava diventando una pretesa inconsistente. Un’alba irraggiungibile, come certi destini prestabiliti che, ad un tratto, un intralcio nel reale disperda in mille nuove ipotesi.

L’Arlecchino aveva la sensazione di camminare da ore, giorni presumibilmente, eppure non un raggio di luce osava affacciarsi sulla strada, se non quello sporadico di un lampione qua e là.

<Quello che ho fatto dentro il tribunale… la musica, intendo dire… so di essere stata io, ma in un certo senso…>

<Sì, mia Signora, o mio Signore…> Milton annuì placidamente al suo fianco. Non la guardava, ma si limitava a seguire  la linea regolare del marciapiede. Uno snodo come tanti altri. Tranquillizzante, in un certo qual senso. Teneva le mani incrociate davanti al petto, con quell’aria pensierosa di chi si attardi nell’ammissione.

<Poco prima… è stato come se… qualcosa, o qualcuno, dentro di me si…svegliasse. E…c’erano immagini… riguardo lei…cioè quella che dovrei essere stata tempo fa… si allontanavano, John… e si sono…diradate.> Si sentiva la bocca impastata, come dopo un pessimo risveglio post-sbronza. La gola era riarsa, eppure non aveva niente a che fare con la sete, quella percezione. Somigliava più a una mancanza. A un vuoto che si facesse spazio dentro il suo intero essere.

<Perderai.> Milton si calcò con decisione gli occhiali sul naso. Stava prendendo tempo, andandolo a cercare dentro un’abitudine.

<…E’ questo il  prezzo. Ogni volta che userai le tue capacità… sarai un po’ più distante da colei che aveva il tuo nome. E ti accosterai a lui…>

<A lui chi? Io…>

<E tu che cosa saresti?!?>

Una voce squillante tagliò di netto quel dialogo, separando ogni eventuale domanda da una plausibile replica. Sapeva di giochi quel timbro vocale. Di giochi e fango e colla da disegno.

Un ragazzino accovacciato  sui gradini la stava scrutando, perplesso. Aveva la testa reclinata da un lato e su di essa una corona sghemba di cartoncino giallo.

<Tu mi vedi?> rispose l’Arlecchino, bloccandosi di colpo. Era interdetta. Per la prima volta da quando era diventata se stessa, quella nuova se stessa, qualcuno era riuscito a lasciarla senza molto da dire. Normalmente passava inosservata, non come certe persone che sembrano non possedere un’identità propria distaccata dalla massa. Lei, per tutti quegli avvocati, banchieri, spazzini, spacciatori di fumo e futuro, era invisibile.

<Perché non dovrei?> Il bambino fece spallucce, asciugandosi il naso con la manica di una felpa troppo larga. I suoi occhi, acuti e scuri, possedevano quell’innocente impertinenza di certe vecchie filastrocche. Qualcuno dovette gridare il suo nome da una finestra più in alto, aggiungendo che la cena era pronta in tavola.

<Perché…> La verità è che lei non aveva mai considerato questa ipotesi. L’aveva accettata passivamente. Esule dal Reale. Era stata scacciata via dalle percezioni di chiunque la incontrasse, a meno che non imponesse al mondo, a quel suo mondo pazzo, di entrare in risonanza con i presenti.

<Che cosa sei?> riprese quello, tamburellando ritmicamente con le dita impiastricciate di olio per ingranaggi contro i gradini. Una bicicletta rossa era abbandonata al suo fianco, splendente alla luce del porticato. Doveva averne molta cura, vista la lucidità delle cromature.

<E tu chi sei per farmi questa domanda?>

<Beh, io sono un Re! E sto combattendo per il mio regno!> Il ragazzino gonfiò il petto e si erse in tutto il suo metro e venti. Con  un gesto imperioso si calcò la corona sopra i capelli arruffati.

<E questo è il mio fedele destriero!> Con un bastone di legno indicò la bicicletta, orgoglioso.

<E contro chi stai lottando?>  L’Arlecchino portò le mani dietro la schiena, chinandosi leggermente in avanti col busto per osservare più da vicino il suo piccolo interlocutore. Qualcosa dentro di lei era entusiasta, di un’euforia trattenuta a stento. Se solo non fosse stato impossibile, avrebbe potuto giurare di aver sentito il proprio cuore riprendere a battere.

<Contro il terribile Drago, è ovvio! Guarda!> E dalla tasca di un paio di jeans strappati qua e là, quel bambino estrasse una chiocciola minuscola, per poi deporla sbrigativamente su una pozzanghera accanto ai piedi di Milton.

<Sta provando ad assaltare il castello dal fossato, ma non ci riuscir..>

<Ancora con questa storia!!!!> La porta alle spalle del ragazzino si spalancò di colpo, sputando fuori un uomo sulla cinquantina dall’odore stantio di tabacco dozzinale. L’andatura zoppicante ne denunciava un difetto congenito, come una marionetta manovrata da un burattinaio inesperto. Un’idiosincrasia di carne e J&B. Con le sue grosse dita ingiallite afferrò per le spalle quello che doveva essere suo figlio, strattonandolo freneticamente. La corona di carta cadde mestamente sul marciapiede.

<Tua madre ti ha chiamato per la cena e tu sei ancora qui a giocare come una femminuccia! Muoviti!> Tre colpi di tosse cavernosa fecero eco al suo risentimento mal indirizzato, mentre trascinava dentro quel ragazzino, senza dargli neppure il tempo di replicare nulla. <Ma…ma non stava facendo niente di male, John….>

<Usava la fantasia. A dire di alcuni, non esiste nulla di più oltraggioso.>

Si sentirono urla sconnesse provenire dal piano superiore. Qualcuno scoppiò a piangere, affermando che no, non ne poteva più. Ci fu un tramestio di piatti e pentole e grida ancora più forti. La cacofonia di uno sgradito esistere.

E poi, dopo alcuni minuti, una luce si accese. Quel ragazzino comparve affacciato alla finestra, con un’ espressione costernata. Aveva gli occhi arrossati. E mille parole raggrumate dentro un magone.

<Non puoi, mia Signora….Ti costerà.>

<Io posso, John. Io posso.>

E quel sangue rappreso dentro le proprie arterie si animò nuovamente, richiamato dalla sua legittima sovrana. I colori già sgargianti del proprio abito divennero più vividi, famelici. Se mai aveva posseduto un’identità precedente, un altro tassello ne veniva soffiato via, cenere immemore. Andava incontro a se stessa, abiurando alla ragazza che doveva aver avuto il suo aspetto, una volta. Per un infinitesimale istante, si vide nel bar di una stazione. Indossava una lunga gonna d’un verde primaverile. Stava aspettando qualcuno che, in un qualche modo, doveva averla resa felice.

Centinaia di campanellini suonarono, seguiti da risa morbose, provenienti da chissà dove. E il volto di un ragazzo dagli occhi chiari che le si avvicinava venne lavato via per sempre da quel tintinnio schizofrenico.

E poi una fiamma famelica tinse il cielo in infinite gradazioni di luce.

Uno Stupore incontenibile si impossessò dello sguardo di quel bambino, quando vide la sua fragile chiocciola sparire. Al suo posto, un drago rosso come l’Inferno puntò le sue fauci contro la volta stellata. Il suo ruggito incendiò l’aria, divorando selvaggiamente ogni altro suono. Un destriero bianco come la neve scalpitava furiosamente, attendendo il suo legittimo padrone. E un sole imperante arse più lontano.

E da terra l’ Arlecchino stesso raccolse una corona forgiata con l’oro più prezioso, sollevandola in direzione della finestra, come farebbe un giullare col suo signore.

Era un’illusione di Fiaba. Era il Trionfo del Sogno.

Quella notte, l’ Arlecchino sacrificò se stessa.

E, se anche quella scena non avesse avuto altri spettatori, lui lo avrebbe saputo.

Al costo di una vita dimenticata, quel ragazzino per sempre avrebbe saputo. Di essere un Re.

 

 

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3 risposte

  1. Aleggia il tintinnio sulle acque del Lete. Il Re dell’Inferno è in viaggio, per dimenticare una Vita, e scoprire la Verità di un’esistenza, lastricata di meravigliosi autostoppisti dell’oblio.

  2. Nel caso specifico, Emanuele, sta per “Avversione”. Ti ringrazio per avermi chiesto delucidazioni.

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