Storia di mafie che non si raccontano – intervista a Vittorio Martone e Rocco Sciarrone

di Sabrina Cicala

Storia di mafie che non si raccontano – intervista a Vittorio Martone e Rocco Sciarrone

di Sabrina Cicala

Storia di mafie che non si raccontano – intervista a Vittorio Martone e Rocco Sciarrone

di Sabrina Cicala

Si chiama “asimmetria informativa” in economia. È quella condizione per cui nel mercato alcuni operatori dispongono di maggiori informazioni rispetto ad altri. La conoscenza che la mafia ha dei rapporti umani le garantisce una posizione di vantaggio nella guerra di posizionamento sul fronte italiano.

Io non so. Io, più conosco, più so di non conoscere. E più ho bisogno di ridurre la distanza informativa che concede alla mafia un’area franca di movimento.

Gli economisti insegnano che l’efficienza si raggiunge con un corretto uso delle risorse a disposizione.

Le mie risorse sono le persone.

Vittorio Martone, sociologo e ricercatore, esperto di politiche urbane e territoriali. Un “osservatore” di quel che non si vede.

Dal punto di vista sociologico, l’eccezionalità è la mafia o l’antimafia?

Non considererei come «straordinari» i meccanismi alla base delle mafie, specie se consideriamo mafie le organizzazioni che puntano alla massimizzazione del profitto, operando a cavallo dei settori legali e illegali e fruendo di un potere politico su determinati territori o settori collegato al loro ricorso alla violenza (agita o minacciata). Nelle economie di mercato i confini della legalità sono frutto di un patto contingente e storico. A partire dallo Stato, e passando per la finanziarizzazione e la globalizzazione economica, il tardo-capitalismo sembra acuire i tratti di violenza interni al modo di produzione. Basti pensare alle strategie delle multinazionali nella filiera agroindustriale, che espellono piccoli produttori e ne acquisiscono i terreni ingenerando una omologazione dei consumi alimentari. O alla grande distribuzione organizzata, che fagocita l’iniziativa dei piccoli commercianti in modalità non molto diverse da quelle esercitate dalle mafie per imporre monopoli in determinati territori o settori. Vi è, in altre parole, una interpenetrazione delle attività formali (finanza, rendita immobiliare, concessioni pubbliche) e informali (intimidazione e violenza). Un parallelo, questo, che trova riferimento nel lavoro di Lebert e Vercellone (2001), per i quali la mafia è espressione endogena all’accumulazione del capitale e non violazione delle regole del mercato.


Concordi con l’espressione «area grigia» o rischia di giustificare i soggetti che la popolano?


Intesa come lo spazio di relazioni tra legale e illegale in cui prendono forma le relazioni di collusione e complicità con le mafie, la ritengo efficace se trattata con cautela. Il rischio diffuso è di considerarla come una coltre indistinta di favoritismi e collusioni, senza distinguere le posizioni dei diversi attori e senza definire i confini del grigio, sempre labili, difficili da individuare e in ogni caso processualmente cangianti. Eppure, nella sua funzione interpretativa, approfondire l’area grigia serve a dimostrare che le mafie sono inserite in reti locali di cointeressenze e a evitare di considerare le mafie come elemento totalizzante, iper-razionale e onnicomprensivo. Una lettura mafiocentrica, quest’ultima, estremamente fuorviante perché non rileva la molteplicità di attori produttori di regolazione mafiosa e che sottovaluta l’importanza delle connivenze e dei sostegni esterni ai gruppi criminali ma pur sempre interni al più vasto network che rappresenta il radicamento del fenomeno nella società.


Cosa intendi per “struttura narrativa di mani pulite”, come si adatta al fenomeno mafioso e perché ne danneggia la comprensione?

Con questa espressione, provocatoriamente, intendevo criticare l’ondata di dichiarazioni “indignate” espresse dagli opinionisti e da molti intellettuali italiani, quando in seguito all’inchiesta Mafia Capitale si sono improvvisamente riscopertisi mafiologi. Questa inchiesta ha tutte le carte in regola per attrarre l’interesse dell’opinionista che consuma caffè a Piazza del Popolo in gilet e orologio da taschino: c’è la Mafia, c’è la politica e ci sono gli appalti. La triade che ha reso il crimine organizzato romano finalmente degno delle prime pagine, svincolandolo dalla piccola cronaca nera cittadina. Eppure questa triade ha di nuovo fatto slittare il dibattito pubblico in quel fastidioso rituale di autocommiserazione all’italiana, quell’esercizio del non discernere e anzi urlare che tutta Roma è mafiosa, che la Capitale e il Paese sono decaduti nella corruttela diffusa e bipartisan, che persino la cooperazione sociale – coinvolta nei traffici di migranti dalla Sicilia alle residenze romane – sarebbe amica dei mafiosi. Ecco, questo a mio avviso è l’errore di chi, come con le inchieste di Mani Pulite, promuove la generalizzazione nel considerare tutta la politica corrotta e nel far seguire all’azione giudiziaria un dibattito che masochisticamente celebra le debolezze italiche.

Rocco Sciarrone, professore universitario di Sociologia generale e co-direttore di «Meridiana. Narratore di quel che non si sa leggere.

Quanto il racconto incide sui racconti? Quanto un’analisi sbagliata della presenza delle mafie ne rende inefficace il contrasto?

Condiziona tantissimo perché riguarda la costruzione dei problemi sociali. Come questi sono raccontati ha una fortissima incidenza su come gli stessi siano affrontati.

Parlarne è costitutivo della storia della mafia e le risposte date o non date sono rilevanti per affrontare il fenomeno. Il repertorio di luoghi comuni, costantemente riprodotti anche dalla mafia stessa, come quello di una dicotomia tra una presunta vecchia buona mafia e una nuova mafia degenerata, delinea confini sbagliati. Lo stesso accade anche nei racconti dell’antimafia: fin quando la mafia sarà interpretata in termini esclusivamente culturalisti, ossia equiparata ad una questione di mentalità, di comportamento di una certa comunità, non sarà opportuno introdurre articoli del codice penale o leggi speciali. Bisognerà agire su una sola arena, potrà attecchire solo in determinati contesti e non in centri metropolitani. Queste interpretazioni impediscono di vedere la realtà e deviano il percorso dell’antimafia.

Non essendo conseguenza di una certa fisionomia antropologica del sud, le mafie si radicano anche al nord. Come riconoscerle senza cucire su forme di criminalità ordinaria una veste mafiosa che mafiosa non è?

Il riconoscimento è uno dei tratti salienti dello studio. Stabilire cos’è la mafia serve per evitare una negazione e una sottovalutazione o evitare di cadere nell’errore opposto, vederla ovunque. La sfida è tracciare la linea di confine. È un problema che hanno gli stessi mafiosi: devono trovare le modalità per riconoscersi, perpetuano rituali di filiazione per segnare frontiere attraverso una specifica simbologia e degli stili di comportamento. Il tutto per non essere “nuddu ammiscatu cu nente”.

Non cadiamo in trappole cognitive: ci sono tratti caratteristici, ma non sempre essi sono uguali a se stessi. La loro forza resta pur sempre il “capitale sociale”, inteso come risorsa di tipo relazionale. I mafiosi sono specialisti dell’uso di relazioni sociali, dei broker, dei mediatori. Accumulano risorse relazionali per farsi rete di collusioni. Formalmente questo sistema umano è legale. Così riescono a riprodursi nel tempo e nello spazio. Questa capacità si è rivelata anche nelle aree “non tradizionali”, dove le manifestazioni della criminalità di stampo mafioso sono plurime.

Oltre a genesi per gemmazione, ci sono stati processi di autoproduzione?

In Veneto opera un gruppo di camorra che è diventato mafioso solo una volta giunto nel nuovo territorio. Millantava una reputazione che non aveva e che ha poi ottenuto attraverso il riconoscimento, ad esempio, dagli imprenditori che si sono rivolti a loro.

Si sfrutta spesso il “logo casalese”, quale titolo da spendere sul mercato criminale. È un marchio contraffatto, ma questo non significa che sia una “mafia falsa”. La merce, per esplicitare la metafora, esiste anche se contraffatta.

Esistono, poi, processi di isomorfismo, mutuano modelli organizzativi.

C’è stata la notizia di un soggetto criminale che si accreditava al nord come mafioso in virtù di un’omonimia con la famiglia Badalamenti. È un modo di autorappresentazione che facilita la penetrazione e l’affermazione nei nuovi luoghi di insediamento. Il potere viene così legittimato ed esercitato nei casi di necessità.

Eppure non è un processo irreversibile. Le mafie possono essere arginate e retrocedere. Vengono sconfitte. Raccontiamo anche questo.

Ci sono fenomeni che gli economisti non possono spiegare. Come la massimizzazione del profitto che deriva dall’aumento dei free riders delle conoscenze altrui.

E ci sono fenomeni che qualcuno chiamava “umani”. Quelli possono essere spiegati. Deve pur iniziare da qualche parte la loro fine.

 

di Sabrina Cicala

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