Storia di due che si amano

di Redazione The Freak

Storia di due che si amano

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Storia di due che si amano

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Storia di due che si amano

Due ragazze si abbracciano, strette sotto un cielo pronto alla pioggia, carico di un grigio che colora tutto, i marciapiedi, la pietra, la pelle e l’acqua.

Il silenzio è una membrana sottile che le avvolge. Poi arriva il suono delle gocce, timide, con la loro voce bassa, per non disturbare.

Nessun rumore, non passa nessuno e la stretta diventa più forte.

Adrenalina e pace in una sola miscela dentro una città che ha radici sommerse, vie d’acqua al posto delle strade, Venezia è piena di ponti per raggiungere quello che è nato separato, è una città che non si è arresa.

Due ragazze si abbracciano, stanno dritte, appoggiandosi l’una all’altra al centro di una piazza che si affaccia sul canal grande. È un istante solo, di vuoto carico. Una manciata di tempo rubato alla furia dei turisti e dei loro scatti. Al riparo anche dal sole, ora che l’acqua si è fatta quasi verde, riflette raggi ormai freddi e sembra quasi di plastica.

Una di loro sorride ad occhi chiusi, l’altra, invece, sono io.

Sbircio appena fuori dal nostro guscio per controllare che sguardi indiscreti non ci abbiano già sorprese. Lei se ne accorge, un po’ indispettita, e per tutta risposta mi bacia.

Freddo fuori e caldo nel punto di contatto in cui ogni odore si fonde. Buoni odori nostri.

Un brivido di freddo la sorprende, la vedo alzare il collo del cappotto e lottare con il vento che glie lo abbassa. Svelta mi sfilo la sciarpa e glie la sistemo intorno al collo ignorando le sue proteste.

 – Non ho freddo, tienitela tu!

 – Basta, non frignare, vuoi ammalarti il giorno del tuo compleanno?

Questo viaggio è il suo regalo. Lo abbiamo progettato insieme, nei minimi dettagli, risparmio dopo risparmio, sogno dopo sogno.

“Dov’è che dobbiamo andare adesso?” – sbuffa rallentando il passo – “ma quanti musei ha questa città? rischiamo di vederli tutti oggi… non puoi riservartene qualcuno per domani?”

“Domani le Chiese” – ribatto gustandomi la sua espressione perplessa, poi non resisto e scoppio a ridere.

La trascino con me nel Museo Correr e nella Chiesa dei Frari, alla ricerca delle statue del Canova.

Figure perfette, pietra pulsante che diffonde umanità come in un miracolo, espressioni fissate nella loro eternità, sentimenti lampanti, li riconosco in qualche ricordo, come il volto entusiasta di Icaro che ha convinto il padre a farlo volare.

Caparbietà e ingenuità, vorrei sempre esserne munita prima del lancio, che le ali si stacchino o meno. Complicato per me che non so muovermi senza traiettorie calcolate, ma per volare si dovrebbe essere leggeri e i numeri pesano come fardelli.

Ad un tratto lei mi abbraccia da dietro, silenziosa e rapida, quasi mi spaventa. Ascolta le mie riflessioni e poi mi prende in giro.

– “Mi piaci quando fai così la maestrina..”

Mi scosto e sbuffo, mi allontano e lei mi viene dietro, ci inseguiamo tra le sale, con passo rapido e poi di corsa. Sbadatamente colpisco un tizio che si lamenta e poi l’addetto alla vigilanza ci rimprovera. Lei ride di gusto e io, mortificata, mi scuso.

– “Andiamo” – mi dice con i suoi occhi accesi, tirandomi per un braccio – “tocca a me!”

Lei che trova le sue meraviglie in altri luoghi, nei discorsi con la gente del posto importunata per strada, la osservo fare mille domande e sto zitta, sorrido appena quando chi le parla si accorge anche di me.

Lei che di questa città vuole scoprire la natura autentica, i posti in cui non vanno i turisti, i quartieri residenziali in cui si incontrano signore con la spesa al ritorno dal mercato, ragazzi cresciuti qui, vecchi che sanno raccontarti ogni storia.

Perdersi tra le calle, addentrarsi in quelle più strette, quasi più buie, rapire gli scorci più belli, ladre.

Mentre siamo sole, nei nostri percorsi deserti, il giorno sta per morire e l’aria punge sulle guance e sulla punta del naso, allora la fermo e la abbraccio. La bacio.

– “Sono felice” – e vorrei che capisse.

– “Anche io” – mi risponde in un sorriso – “andiamo..”

La osservo mentre mi cammina accanto. I suoi capelli rossi trasportati dal vento, li ho sempre conosciuti così, senza una regola. Le mani piccole e nervose, sempre agitate, in ogni discorso. Percepisco la tensione continua del suo corpo, come a volersi estendere, per avvolgermi.

Davanti a noi si apre uno specchio opaco che assorbe gli ultimi raggi di luce. Con stupore i miei occhi incontrano i colori caldi dei mattoni dipinti dal sole appena comparso e già distante, palazzi che si immergono, i toni accesi delle piante e dei fiori che pendono da ogni finestra. Barchette addormentate lungo tutta la via, motori in lontananza e un ragazzo che conversa al telefono con uno spiccato accento. Noi due seguiamo i suoi discorsi sedute su scalini di pietra che sprofondano nell’acqua. Vicine.

La vedo seguire con sguardo attento i passanti attraversare con calma questo Campo appena scoperto. È uno spiazzo minuscolo affacciato su due corsi d’acqua che si incontrano, come in un dipinto.

-“Perché secondo te camminano così lentamente?”

Alzo le spalle, incuriosita dalle sue teorie.

– “Perché vogliono godersi questo spettacolo…”

– “Penso anche io..” – annuisco appoggiando il viso sulle ginocchia.

Mi accorgo che cerca qualcosa nella sua borsa.

-“Tieni” – mi consegna un foglietto di carta piegato con cura. Lo apro, di fretta, e scopro la mia scrittura.

Così non ce la faccio, non sono forte come te. Dovremmo vivere in una città senza strade e soprattutto dovrei non avere una famiglia a cui dar conto di cosa voglio, ma preferisco rinunciare io. Scusa.

In fondo c’è il mio nome e una data.

Leggere mi ferisce, come se quelle parole non le avessi scritte io. La guardo mortificata, ma lei ha uno sguardo sereno e mi si è fatta più vicina.

-“Sono passati già otto anni.. ero solo una ragazzina spaventata..”

-“Per fortuna che poi c’hai ripensato!” – scherza maldestramente e io resto in silenzio perché non so cosa rispondere. È una lunga pausa. Perché mi ha mostrato questo biglietto? Come mai lo aveva con sé?

– “Il tuo cervellone è già partito alla ricerca di risposte quanto mai lontane dalla realtà..? “– sorride passandomi una mano tra i capelli, i miei che sono corti e ordinati, almeno quando lei non mi sta intorno.

– “”Sei ancora in tempo..” – rispondo con il fiato un po’ corto. “Che vuole dirmi?”

-“Volevo solo ringraziarti. Volevo farlo qui, in questa città che è davvero senza strade, almeno come si intende comunemente.. e restituirti questo pezzo di carta mi sembrava il modo migliore”.

Sorrido, con il cuore tamburellante, lo lascio in pace, lo lascio correre.

-“Per essere felici ci vuole coraggio” – parole semplici, non ne ho altre, sono le stesse usate in quella volta in cui sono tornata. Lei se lo ricorda e sorride.

Ripenso al volto di Icaro, non tutti i voli conducono allo schianto, nonostante gli scetticismi. Esistono regole di gravità falsificabili, attitudini vittime di ricostruzioni fallaci. È una natura insofferente quella di noi uomini e donne, non ci sta a lasciarsi disegnare un confine e a dormirci dentro. È nei modi di essere la verità di ogni cosa, nelle forme multiple che si fanno osservare e basta, sfuggono a descrizione.

Le rubo quel piccolo biglietto e lo infilo in tasca.

– “Andiamo per ombre?” – mi chiede, alzandosi in piedi, e io la seguo.

Le luci rosa dei lampioni ci indicano percorsi che non conosciamo. Ci infiliamo nella prima osteria affollata incontrata per sbaglio, in Campo San Barnaba. Al bancone un ragazzo e una ragazza servono vino e bevono tra le risate dai loro bicchieri.

– “È un bel mestiere il loro..” – mi bisbiglia all’orecchio, poi chiede un Traminer e un Pinot Grigio.

Chiacchiere nostre, sapore dolce del vino e poi quello che sta intorno si dimentica.

All’uscita siamo entrambe un po’ brille e accaldate. Il contatto con l’aria fredda ci risveglia bruscamente dal torpore. La piazza è quasi vuota, animata solo dal vento e da una pioggia sottile. Ci stringiamo per sfuggire al freddo e mi accorgo di una ragazza rimasta fuori dal locale. Tiene una sigaretta tra le labbra e fissa l’orologio. È sola e probabilmente aspetta qualcuno. Si guarda intorno, animata da una trepidante attesa, poi vede noi. Ci guarda per poco e poi sorride, io le restituisco lo sguardo.

Torniamo.

La Locanda in cui alloggiamo è a pochi passi, la proprietaria è una signora anziana che vediamo sempre alla reception, con gli occhiali scesi fin sulla punta del naso, pare aver messo le radici.

La stanza è ricavata tra pareti di compensato, minuscola e decorata come una bomboniera, tutto troppo rosa e merletti.

Lei si tuffa sul letto lanciando lontano le scarpe.

Poi le luci si spengono. Solo una rimane, è quella di una fiammella accesa su un’unica candelina.

-“Buon compleanno!” – e il mio sorriso a mala pena si vede, ma si sente chiaro, al buio.

-“Grazie.. quanti ne faccio?”

-“Troppi, stai diventando anzianotta..”

Ridiamo.

E meno male che è lei a dover spegnere la candelina, perché io non avrei desideri da esprimere, nessun posto in cui andare, nessun risultato da raggiungere.

Il momento è perfetto, ora che la luce si spegne.

Solo noi restiamo.

http://youtu.be/co5gy_2uOEY

di Alessia Rosati All rights reserved

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