Racconti – Gianluca

di Fabrizio Lucati

Racconti – Gianluca

di Fabrizio Lucati

Racconti – Gianluca

di Fabrizio Lucati

Ferie d’agosto. Di norma, non il mio periodo preferito dell’anno. Anzi proprio non lo sopporto. Preferirei starmene in ufficio, quando tutti gli altri sono in ferie, c’è poco lavoro da fare, una potente linea internet e, soprattutto, l’aria condizionata. Mi hanno però obbligato a prendere almeno una settimana, per non arrivare a metà strada da Natale con i nervi distrutti. Così per una settimana me ne starò a casa, potrebbe farmi bene, potrei schiarirmi le idee, capire che fare e come comportarmi in futuro. Potrebbe anche essere un’arma a doppio taglio e finire a passare le giornate a pensare, rimuginare e disperarmi. Spero vivamente nella prima.

Cinque giorni a settimana di ferie, se si scontano i sabati e le domeniche intorno a quei cinque giorni, si arriva a un totale di nove giorni, ideali per un viaggio ma con tutta la confusione degli ultimi tempi, l’acquisto della una moto e spese improvvise non sono riuscito a organizzare niente. Mio fratello è a Roma per il weekend, così i primi giorni li passo con lui, concerti a villa Ada, belle serate, grandi mangiate e bevute. Ci stava anche scappando uno spettacolo Shakespeariano all’aperto, idea che deve essere venuta a tanta altra gente visto il tutto esaurito di quella sera. Domenica se ne va, rimango di nuovo solo. L’unica cosa che mi viene in mente è recuperare videogiochi lasciati in sospeso, la domenica passa veloce tra birra e PS3. La noia avanza, le mie giornate sono fatte di corsa, film, libri e giri in moto. La moto mi dà pace, mi basta prenderla e fare anche un chilometro per sentirmi meglio.

 A metà settimana mi salva Emma. La conosco da parecchio oramai. Amicizia di Latina. Ci sentiamo distrattamente su Facebook qualche volta. Pare ci sia una festa di compleanno, interessante, giù a Latina nel weekend. Potrebbe farmi entrare. E’ già mercoledì, non ho programmi e il frigo è vuoto. Perché no. Scendo il pomeriggio stesso. Zaino in spalla, casco in testa e via verso la Pontina. Strada che non è l’ideale in moto. Sul podio delle strade più pericolose del paese, è un titolo che si merita tutto: pessimo asfalto tempestato di buche, due carreggiate troppo strette per due corsie, considerando poi il volume di traffico, che non conosce diminuzione neanche ad agosto dato il suo status di arteria di collegamento di due zone industriale, centri commerciali, parchi divertimenti ed outlet, la cara SS148 mi regala sempre brividi ad ogni percorrenza.

Una moto in mezzo a station wagon cariche di famiglie, furgoni con operai e camion guidati da stanchi conducenti sono garanzia di avventure. Un’ora circa di quell’inferno e sono a casa di mio padre. Non c’è. Preferivo del cibo all’accoglienza, ma avrà pure il diritto di farsi gli affari suoi. Poso lo zaino, mi do una sciacquata al volo, la così detta “romanella”, risalgo in sella per andare da mia nonna, è tantissimo che non la passo a trovare e per quanto non mi vada, i doveri familiari, una volta ogni cento, vanno osservati. Entro in casa e si ripete la stessa conversazione.

  • Come stai Matti?
  • Bene!
  • Come va il lavoro?
  • Bene, ne ho uno!-
  • E vedi di tenertelo.. .una ragazzetta te la sei trovata?
  • Lasciamo stare, te come stai?

Passa cinque minuti a lamentarsi di dolori vari. Gambe, schiena soprattutto. Pare sia tornata da poco da un viaggio in pullman in Trentino. Uno di quei viaggi organizzati da cooperative, che costano poco ma durante il tragitto tentano di vendere aspirapolveri o batterie di pentole a prezzi esorbitanti. Ne fa uno ogni due mesi. Ha ottantasei anni. Sono un contabile e non un medico, ma i suoi dolori sono facilmente riconducibili a questo. Mi offre da bere, non si aspettava una mia visita, come dicevo non vado mai, mi può offrire solo del caffè, freddo o caldo. Siamo in pieno agosto e il clima della pianura pontina, nonostante la bonifica, è rimasto quello di una palude, opto per il freddo. Non ha il freddo, può farmene uno caldo. Accetto il caldo.

Esco da lì venti minuti dopo il caffè con 50 euro di più in tasca. Effettivamente vale sempre la pena andare a trovarla. Mentre scendo le scale mi chiama mio padre, ha visto lo zaino e chiede se mangio con lui, rispondo di si, risalgo in moto e me ne torno a casa dove resto tutto il giorno spalmato sul divano sotto il getto delle ventole da soffitto.

I giorni seguenti li passo in moto. Spendo in carburante tutto quello che ho preso da mia nonna. Il primo giorno Sabaudia. Quella strada l’avrò percorsa mille volte ai tempi del motorino. A maggio si saltava la scuola per le prime mattinate di mare, il tempo già lo permetteva, l’acqua era ghiacciata ed era un ottimo deterrente per la maggior parte della gente. Non è maggio e si vede. La strada è trafficata, auto piene di famiglie a passo d’uomo nella speranza di trovare un buco dove parcheggiare, gente in costume per strada. Tutto ciò che odio del mare in estate, ovvero le persone, concentrato in pochi chilometri di strada. Che problema hanno? Perché devi girare con un costume a mutanda per la strada, mettiti una cazzo di maglietta e risparmiaci la vista del tuo fisico devastato da mangiate esagerate e birra. Invece di rilassarmi il giro mi rende nervoso, torno a casa, pranzo e per il pomeriggio opto per andare in collina. Scelta azzeccata, sono tutti al mare, le strade sono deserte, ombreggiate dalla boscaglia. Le strade di montagna sono un piacere da fare in moto.

Curve, salite, tornanti. Salgo in cima, entro nei vecchi paesi, mi fermo nei forni a comprare biscotti appena sfornati che mangio seduto sulle panchine del belvedere. L’aria è abbastanza pulita, si vede il mare, si vede anche Ponza, non si vede nessun ciccione in costume. Fatta merenda, rimonto in moto prossima tappa, il paesino… meglio dire centro abitato rurale, dove sono cresciuto. Passo davanti la mia vecchia scuola, momento amarcord quasi commovente, è stata ristruttura pochi anni fa per festeggiare gli ottanta anni della bonifica, sembra bellissima, quasi dimentico l’odio e la sofferenza provati la dentro, poi me li ricordo e me ne vado.

Sono invitato ad una cena a base di pizza e birra a casa della compagna di mio padre. Il suo terrazzino è favoloso, perfettamente ventilato, e protetto dal rumore del traffico. Il tramonto caldo da sera di agosto è la cornice ideale.

Mi sveglio la mattina dopo con molta calma. Emma la sento nel pomeriggio, mi verrà a prendere alle undici, considerando sia una ritardataria cronica ci vorrà almeno mezz’ora in più. Si raccomanda di prendere un po’ di alcolici per la festa, che a mani vuote non è educato imbucarsi. Mi metto comodo, mi faccio un paio di whiskey mentre guardo qualche film. Mio padre è partito, passerà il resto di Agosto in montagna, al fresco. Tanta invidia.

Le dieci si fanno presto, sono pronto e vestito sul divano. Squilla il telefono, Emma annuncia un suo ritardo, ho fatto bene a non indossare ancora le scarpe. Verso dell’altro whiskey. Il tempo di una sigaretta e arriva un altro messaggio, vocale questa volta. Il suo urlo mi perfora un timpano. Sta arrivando. Arriva in tempo per la fine del fischio nelle orecchie. Scende dalla macchina per salutarmi, noto subito le sue gambe in bella mostra sotto un vestitino corto. Il fisico esile ma muscolo di chi nuota da una vita. Alta quasi come me, tanto che riesco a guardarle gli occhi castano chiaro senza abbassare la testa. Capelli neri, più lunghi dall’ultima volta che l’ho vista. Pare aver superato la fase maschiaccio.

Prima di andare alla festa, che a quanto pare si svolge dentro un “fighissimo” appartamento con terrazza in centro, ci fermiamo per un caffè e una ricarica di sigarette.

Arriviamo alla festa. L’appartamento si trova nella piazza principale della città. Una palazzina bassa, di due piani. Architettura razionalista tipica dell’epoca fascista, epoca di fondazione della città. Marmo e legno. La casa invece è più moderna. Ristrutturata da poco, sembra uscita da una rivista. Chiedo alla mia accompagnatrice chi sia il festeggiato, ma anche lei ne è all’oscuro. Ha sentito parlare di questa festa, siamo due imbucati. Ci accoglie una signora sui cinquanta che ha visto più volte lo studio di un chirurgo plastico. Ringrazia per le bevande, a quanto pare nessuno ha pensato a della tequila per una festa estiva. Strana la gente della mia città. Mettè tutto nell’angolo bar del salone, dove c’è di tutto da bere, soprattutto vodka. Il tutto selfservice, la serata finirà malissimo.

Perdo Emma dopo poco più di un’ora. Così inizio a parlare con varie persone, cerco di attaccare bottone con paio di ragazze, ma per lo più vengo respinto miseramente. Incontro una vecchia amica delle scuole medie. Passo tutta la serata con lei e i suoi amici, anche loro conoscono a malapena il festeggiato. Secondo me non esiste, la festa l’ha organizzata la signora siliconata per avere compagnia giovanile in casa. I tre self negroni che mi sono fatto mi danno forza di dire questa cazzata a voce alta, ride tutta la balconata.

Emma è ancora dispersa, vero che la casa è grande ma non trovarla mi sembra assurdo, probabilmente starà in qualche stanza con qualcuno a paccare. Già mi vedo tornare a casa a piedi, fortuna che Latina è una città piccola.

Alle tre la casa si svuota. Saluto le persone con cui ho passato la serata con la promessa di rivederci a breve. Non succederà. Sono stati amici per questa sera, una piacevole amicizia nata e morta il tempo di una festa.

Si fa viva Emma visibilmente ubriaca, scarpe in una mano e self-cocktail nell’altra.

  • Ma dove stavi?-
  • Niente, ho incontrato altri amici-
  • Ok, già pensavo di tornare a casa a piedi!-
  • Scemo! Ti pare ti lascio qua, che ore sono?-
  • Le tre e mezza.-
  • Le tre e mezza! Ma pensavo tipo fosse l’una!-
  • Emma siamo arrivati qua a mezzanotte, come cazzo fa ad essere passata solo un’ora, ti sei divertita un casino vedo?!-
  • Andiamo a casa, sono stanca…-

Saluti, sorrisi, baci con la signora siliconata, anche a lei prometto di farmi risentire. Via verso la macchina.

Il ritorno è accompagnato dalla piacevole scoperta del McDonald’s cittadino diventato un H24, così entriamo, menù maxi per entrambi per assorbire l’alcool nello stomaco. Siamo sotto casa mia, temporeggia un po’ nei saluti, mi chiede di salire per riposarsi un po’. Abita fuori città, preferisce riprendersi un attimo prima di guidare fino a casa. La faccio salire.

Prendo due birre dal frigo, preparo due sigarette, e ci mettiamo sul divano. Silenziosi, c’è una strana atmosfera, penso ci sia la possibilità di una pomiciata almeno, ma vado cauto. Si mette sotto il mio braccio e appoggia la testa sul mio petto. Le accarezzo i capelli, spegne la sigaretta, la spengo anche io. Le prendo la testa, la giro e la bacio. Poggia la birra mi sale sopra. That escalated quickly, direbbe Will Ferrel. Mi alzo con lei ancora addosso e la porto in camera da letto. Mi ferma. I miei occhi lasciano travisare una bestemmia muta.

-Cosa vuoi tu da me?-

E’ la domanda più difficile che poteva farmi, eccitato, ancora ubriaco e sconsolato da fatti recenti, riesco a rispondere solo:

-Se me lo chiedi adesso, una scopata mi andrebbe molto volentieri.-

Mi bacia dandomi il via libera. Ci si tocca, ci si spoglia. Scende verso il mio bacino baciandomi il corpo. In queste situazioni mi viene da odiare la mia pigrizia nel non avere degli addominali scolpiti. Dopo pochi minuti si mette sopra di me e mi fa entrare. È la prima volta che lo facciamo, non è male. Si va avanti un po’, lei apprezza, sempre di più i mugolii si trasformano in versi prima e parole poi:

-ODDIO GIANLUCA SI!-

Mi blocco un attimo, lei no, continua, sembra essere altrove. Anzi è altrove e non sono io quello che le fa compagnia. Me ne sto lì fermo. La guardo. Ancora dentro di lei.

  • Emma tutto ok?-

Non mi sente. Va avanti. Continua a chiamare questo Gianluca, pare anche godere e giuro che avrei preferito si fosse addormentata per la noia. Devo prenderla e scuoterla per le spalle per avere attenzione.

Si ferma, apre gli occhi, mi guarda e realizza.  Scoppia a piangere. Si scusa, almeno penso, i singhiozzi rendono incomprensibile quello che dice. Sono in un misto di panico e imbarazzo con una punta di incredulità. Le chiedo di nuovo se va tutto bene. Continua a piangere. La prendo per i fianchi, la tolgo da sopra il mio bacino e si sdraia al mio fianco. Chiude le gambe al petto, le braccia intorno alle ginocchia. In posizione fetale se ne sta lì al mio fianco a piangere singhiozzare fino a togliersi il fiato. La copro con il lenzuolo, mi rivesto di mutande e pantaloni e vado a prendere due birre in cucina. Apro il frigo, resto lì un moemnto a fissare  i ripiani e non posso fare a meno di ridere per un attimo. Non ci credo che mi stia succedendo anche questo. Torno in stanza che ancora piange. Prende una birra, ringrazia e si scusa. Cerco di tranquillizzarla.

Non è più in posizione fetale, è seduta con la schiena contro la spalliera, ancora chiusa, mento appoggiato sulle ginocchia, avvolta a mo’ di bozzolo con il lenzuolo. Imbarazzato, e un po’ ferito nell’orgoglio, faccio il possibile per tenere la situazione. Fortunatamente, ci pensa lei a sbloccarla. Inizia a parlare, questo Gianluca pare essere un ragazzo con cui ha una relazione fatta di tira e molla da quasi un anno. Lui la chiama ogni tanto, ci esce un po’ e poi la lascia. Per questo era sparita alla festa.

L’ha visto con amici, l’ha raggiunto e preso da parte, lui imperterrito le ha detto di no e poi l’ha visto baciarsi con un’altra. L’imbarazzo passa. Rimane solo l’incazzatura da consapevolezza di essere diventato una ruota di scorta. Ne ho abbastanza. Vorrei mandarla via, ma non posso lasciarla guidare in questo stato. Posso capirla, con un minimo di empatia si arriva a capire come sia stare così. Non riuscire a liberarsi di qualcuno. Andare alle feste, bere con amici, scoparsi un amico, chiudere gli occhi e far finta che sia la persona che si vuole, non è un buon modo per affrontare la cosa. Almeno non se sono il surrogato. E’ umiliante cazzo. Mi sento un po’ una merda egoista ad avere certi pensieri, soprattutto con lei sul  letto che ancora versa lacrime, ma l’incazzatura sta prendendo il sopravento. Vorrei prenderla e buttarla fuori di casa. Lei non smette di piangere, sarei veramente una brutta persona se la cacciassi da casa ora. Finisco la birra, le cedo il letto. Lascio la stanza lentamente, in un moonwalk a rallentatore. Prima che chiuda la porta mi parla.

  • Buonanotte… e grazie, davvero.-

E’ tardi sono quasi le cinque oramai. Me ne vado a dormire nel letto di mio padre. Penso di aver fatto la cosa giusta a comportarmi così, a lasciarla stare in casa. Forse troppo giusta. In futuro dovrò sfruttare questa mia cortesia per il mio interesse.

di Fabrizio Lucati All rights reserved

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