Prima di Bilbao – You and I (Il prequel di Bilbao solo andata) parte 1

di Vittoria Favaron

Prima di Bilbao – You and I (Il prequel di Bilbao solo andata) parte 1

di Vittoria Favaron

Prima di Bilbao – You and I (Il prequel di Bilbao solo andata) parte 1

di Vittoria Favaron

“Molto più importanti della parola <<amare>>, sono le parole <<eterno>> e <<volontà>> [..]” (Milan Kundera)

Raphia, o Rafia, fu il nome scelto da Livia per la gatta nera che trovò appoggiata alla ruota della sua macchina in quel pomeriggio d’estate a Milano.

La vide dal portone, si fermò ad osservare la felina dal colore dell’inchiostro e dagli occhi di giada che immobile sembrava attenderla.

Livia lasciò alle spalle l’uscio nell’intento di raggiungere la vettura e accarezzarla, ma non appena si piegò e accennò un movimento del braccio proteso verso di lei, Rafia indietreggiò e scappò via, repentina e diffidente.

Livia seguì quello scatto e riuscì a scorgere il percorso che la gatta compose, fino al momento in cui si nascose sotto una sedia di rafia spessa e intrecciata, capovolta in malo modo vicino al cassonetto dei rifiuti.

Vide inoltre che la gatta si girò verso di lei, piegò le zampe per stendersi e iniziò a ricambiare lo sguardo indiscreto di Livia, tanto da portare la ragazza a sviare gli occhi, nella consapevolezza di quanto i gatti possano essere schivcertamente non abituati ad osservatori sfacciati quale Livia si atteggiava.

Fu un rituale che si ripeté nei giorni a venire. Rafia aspettava Livia nel preciso punto in cui la ragazza la trovò il primo giorno, ma non gradiva il contatto con lei, e puntualmente scappava via nel mentre in cui Livia tentava di porgerle una carezza.

Dopo vari e vani tentativi Livia non provò più ad instaurare un approccio fisico con quel felino che ormai aveva preso parte al convivio della sua quotidianità più scandita, ma non per questo non si curò di Rafia come se fosse il suo gatto domestico.

Le portava da mangiare, lasciava il piatto vicino alla ruota della macchina raccomandandosi scrupolosamente con vicini e condomini di portare attenzione verso quella gatta, di avvisarla in casi di emergenza, di considerarla come se fosse la sua padrona. Nonostante le premure espresse da Livia, Rafia perpetuava il suo diniego verso di lei.

La sera in cui Livia scese di casa per uscire, ubriacandosi di un’afosità cittadina talmente brutale ma inevitabile che ricordava quelle sbronze incespicate dopo un cocktail accidentalmente ordinato, totalmente inutile, si ripropose la scena di Rafia seduta in attesa e l’attimo successivo in fuga lontano da lei.

Livia raccolse il piattino di carta in cui erano riversati i resti della cena del gatto, si mosse verso i cassonetti posti di poco lontano e ritornò in direzione della sua auto, non girando lo sguardo verso Rafia che intanto osservava i suoi passi dalla sua posizione di fuggiasca consapevole.

Via Palestro 133, interno 5. Famiglia Fogazzari.

Giovanni Fogazzari, Vanni per i pochi intimi, figlio del notaio Oreste Fogazzari e di Rachele Palmariggi. Lui milanese da generazioni, lei nobildonna di origini siciliane, Vanni unico figlio.

Livia aveva conosciuto Vanni una sera senza una storia precisa, sui navigli, tra un concerto di una coverband dei Radiohead e una ricerca al sapore di alibi di una birra fredda lontano dallo schizofrenico venerdì sera milanese.

Un incontro convulso, in cui entrambi sentirono uno sfrattonarsi cardiaco forte, che superò l’imbarazzo iniziale di chi si rapporta a volti sconosciuti e a corpi estranei.

Vagarono tutta la notte e si ripromisero che non sarebbe stata l’ultima, che avrebbero continuato a imboccare le strade e a sorseggiare birre complici, a scovare nei passati reciproci e a condividere presenti che destavano curiosità affine e voglia di scoprirsi con la dovuta cura.

E andò così.

I mesi macinati, anche se brevi, riempirono incredibilmente un’assenza temporale pregressa in cui le loro vite erano scarne perché prive della presenza altrui. Un colmare vuoti d’esistenza che riletti con gli occhi della consapevolezza di giorni condivisi, risuonavano afoni e stantii, come se bastasse l’intreccio di una vita nuova, aggrappata alla nostra, per rigenerare un intero corso di ritrovato senso, e soffrire di meno, quando ci si muove in due.

 

E il progredire di quei giorni assolati e consumati dalla voce fresca e squillante di Livia, che contrastava con il tono flebile e mai sopra le righe di Vanni, scoprire caffè dietro angoli cittadini che prima sembravano privi di bellezza, giocare nei negozi vintage fingendo di voler comprare tutto, provando e riprovando stramberie di ogni genere, per poi congedarsi con un “Grazie e arrivederci!”, e ridere di gusto rispetto a quel gioco puerile e datato. Ancora, restare nei pochi prati che una metropoli può contare, serviti di un buon libro e di una musica dal vivo offerta dalla chitarra di Vanni, congelare quelle ore preziose e speciali, perché non bisognose di barocchi tentativi di smanie da divertimenti attuali, un po’ bohemien e un po’ pura semplicità ricreata, guardarsi senza dover necessariamente sprecare inutili parole, perché Livia aveva letto da qualche parte che non si può misurare l’intensità di due persone che si amano dal numero di parole che si scambiano, e trovò questo concetto perfetto, nell’attimo rasente l’infinito in cui contemplava Vanni di schiena mentre minuziosamente tentava di accordare la chitarra.

E come allora, anche in quell’istante Livia era persa con gli occhi appoggiati alle pelle di Vanni, con la dovuta distanza, accovacciata sul divano della sua camera e con la testa sul bracciolo sinistro, mentre lui teneva il corpo riverso sullo specchio, nel tentativo di allacciare un cravattino anni 70, un regalo di Livia.

Teneva quegli occhi vigili, e la sua mente andava da sé, nei pensieri che puntavano il loro peso fragoroso nei momenti in cui Livia avrebbe voluto staccare le sinapsi che le bruciavano il cuore.

Restava in silenzio, come muto si muoveva il suo amore per quel ragazzo troppo distratto e concentrato sull’immagine che il vetro riflettente gli serviva frontale, tanto da non potersi accorgere che la ragazza che giaceva a pochi metri da lui aveva accumulato una sorta di emozione che prescindeva dal semplice concetto di amicizia, o da qualsiasi parola servisse per descrivere il loro stato sociale.

Distrazione o forse semplice cecità. Parole ridondanti e pur sempre parole che andavano a descrivere le risposte che giungevano alle domande che Livia si poneva quotidianamente rispetto ai modi di fare di Vanni.

Eppure si portava in un’ipotetica scena teatrale una danza vorticosa, un walzer esemplare in cui ognuno conduceva l’altro, in una perenne asimmetria di distanze e vicinanze, troppo vicine, in cui il respiro non contava più, in cui bastava un semplice scambio di gesti, un sorriso, un cenno con il volto dall’altra parte della sala o della strada, per rendere del tutto inspiegabile come non vi fosse alcuna rivelazione finale, alcun interrompere quel ballo e dirsi “cosa siamo realmente”, alcuna esitazione che conducesse verso un passo ulteriore, un giro di musica vero, un rendere tangibile un amore apparecchiato a maniera, per quanto anche questa parola risultasse banale.

E invece Vanni, durante un caffè svogliato per abbattere una monotonia pomeridiana, pronunciò 6 lettere verso Livia, che interruppero l’idillio sentimentale in cui la ragazza era ormai intricata, e andarono a trafiggere i suoi organi sparsi e in stato di tensione emotiva: Claudia.

Livia deglutì come se un fiume di veleno melmoso la stesse attraversando fino a dividere il suo corpo in due e spargere di una cattiva metastasi ogni vena pulsante d’ossigeno. Il sangue contaminato, il cuore ridotto a frammenti globulari.

Nel suo consueto riserbo e nella fumosa certezza che Claudia aveva incrinato, anche se con una crepa impercettibile al tatto, il legame con Livia, ma senza che una spiegazione effettiva ci fosse, perché la Cecità operava stabilmente con i suoi veli di incoscienza e mancata verità su Vanni, il ragazzo nominò Claudia in occasioni centellinate, ossia le volte in cui non era reperibile, non era disponibile, non era presente, non poteva essere con Livia.

E quando Livia, come in quel tempo in cui occupavano lo stesso spazio, lei sul divano e lui allo specchio, mancava di fiato, restava in silenzio e con lo sguardo e le labbra serrate, Vanni non portava Claudia in quel luogo, era fuori dalle loro parole.

Solo pigli di incoscienza e irrazionalità che condiscono i sentimenti bonari e intensi, che abbracciano i picchi di chimica ed erotismo che ci spingono verso l’altrui corpo, verso la persona che scegliamo che sia parte di noi, che vogliamo sia dentro di noi, più di quanto già non lo sia, solo un carrozzone di emozioni così libero e non farraginoso, solo questo amore poteva spingere Livia a non curarsi della presenza di Claudia nella vita di Vanni, o del semplice fatto che Vanni avesse attualmente scelto una ragazza che non fosse lei, che avesse spostato il meridiano del suo personale sentimento verso un percorso che non portava il suo di nome, il nome di Livia.

E per quanto potesse sembrare infantile e stupido legarsi ancora, resistere ancora e sostare ancora nelle stanze varcate da Vanni, al netto di una speranza di carta rispetto al film che scorreva e che vedeva Claudia primeggiare e occupare il suo cuore, Livia era li, in perenne attesa, tenendo stretta la speranza che qualcosa potesse prendere il corso di un qualche cambiamento, come a voler strappare dagli occhi di Vanni quella cecità omicida, risucchiare ogni distrazione e rivelarsi a lui, raccontargli il loro film, urlargli prepotente: Scegli me.

Ma non lo fece, e continuava a non muovere un passo, continuava a seguitare il presente, a ritagliarlo giornalmente, a subire distrazione, a raccattare briciole di contatti precari, di condivisione parziale di vita, dei bicchieri di vino consumati insieme, per terminare l’ultimo giro sotto il portone e scambiare niente, se non ulteriore distanza.

D’un tratto Vanni iniziò a pronunciare qualche parola, che Livia comprese con secondi di ritardo, mentre si rese conto che lui aveva terminato di legarsi il cravattino e ora la guardava stranito mentre lei, affusolata sul divano, si trovava completamente distaccata dalla realtà in cui giacevano, come se avesse ricreato una dimensione parallela di cui solo lei conosceva la porta d’accesso.

“Ho ricevuto un’offerta di lavoro sai?”

Le condizioni economiche molto abbienti della sua famiglia avevano concesso a Vanni di poter scegliere di studiare beni culturali, in un periodo storico in cui l’arte è completamente ignorata e in cui nessuno sembra curarsi seriamente dei “crolli” intorno ad essa.

“Di che si tratta?”

“Mi chiedono di trasferirmi a Bilbao per occuparmi della sezione surrealista del Guggheneim..”

Livia si riprese di colpo, come se un enorme tamburo avesse battuto un colpo potentissimo, tra il timpano e la parte sinistra del suo cervello

 

“Ma..ma è fantastico! Cavolo, è fantastico! Parti vero?”

Mentre finì di pronunciare l’ultima vocale la lingua si interpose tra due denti e venne sbadatamente morsa, e Livia senti quel piccolo corso di sangue fuoriuscito come un’inevitabile trama liberatoria di parole che non avrebbe coscientemente mai voluto esplicare.

 

“Non credo, non so. No, in realtà non ho risposto. Prenderò tempo.”

“Stai scherzando spero..”

Altre parole difettose, altro sangue che andava a depositarsi sotto la lingua.

 

“Non voglio lasciare Milano. Ho raggiunto la mia stabilità qui. Ho i miei luoghi, i miei amici. Non è il momento di incasinare tutto. Forse non sono pronto a questo genere di cose. Vedremo.”

 

Livia sgranò gli occhi, come era solita fare quando qualcosa urtava la sua suscettibilità in modo estremamente fastidioso, ma smise di sprecare parole, anzi no, decise di rischiare l’ennesima emorragia, per il puro e insensato gusto di sentirsi, ancora una volta, estremamente sciocca.

 

“E Claudia?”

 

“Già c’è anche Claudia. Certo Claudia. Ma non è lei il gancio che mi lega qui”.

 

Livia deglutì come la prima volta che sentì il nome di quella ragazza provenire dalla voce di Vanni e aggiunse:

 

“Spiegati..”

 

“Claudia è una persona importante, anche se non ne comprendo la portata, è una persona presente, mi ama, mi vuole bene, è nella mia vita e a me sta bene così”.

 

“….”

 

“Ti stupisci…non dovresti. Cosa posso aggiungere, che Claudia è una di quelle caramelle che allieta le mie giornate..hai presente le caramelle vero? Con la loro carta sgargiante, il loro gusto mezzo colorante e mezzo zucchero..”

 

Livia continuava a tenere gli occhi sgranati e dentro di sé percepiva un sapore acre e stucchevole, un progressivo senso di nausea rispetto a quell’increscioso discorso, quella resa palese, quella di Vanni, come se nessun emozione potesse travolgerlo, come se un cinismo infuocato ma vigoroso avesse circondato le sue parole, altre parole, ma in questo caso pregne di un’impudenza scioccante, come se Vanni avesse accumulato un vuoto immenso, da cui fuoriusciva sporadicamente un rigurgito pulsante e qualche straccio d’eccitazione.

 

“Non guardami così Livia, come se fossi un mostro. La verità è che non sempre riusciamo ad essere perfetti in queste cose. Non sempre siamo così forti dal rischiare di immetterci in relazioni pazzesche, passionali, senza sbavature e difetti.

A volte basta avere una percezione di benessere. Magari non è il massimo ma c’è.

Si chiamano relazioni mature vero? Claudia è una persona da questo genere di cose. E poi non tutti riescono a trovare la persona giusta con cui condividere una vita speciale.

Nel tuo idealismo il corso degli eventi dovrebbe viaggiare su direzioni prive di compromessi. Ma spesso ci sono dinamiche che ci portano a fare altre scelte.

E io non sono forte, non sono forte come te…”

 

Vanni sorrise, ma non ebbe il dovuto coraggio di porgere lo sguardo verso Livia  che intanto subiva lo sconcerto di quelle ultime frasi, priva di qualsiasi difesa o replica che potesse attenuare la cancrena di quel ragionamento così lontano da lei, e presumibilmente anche da Vanni stesso.

Non poteva credere che il ragazzo di cui si era innamorata potesse mostrarsi così ermetico a qualsiasi genere di fibrillazione irrazionale, come se fosse raccolto in un blocco di cemento puro, impermeabile a ogni cedimento, eppure così fragile, perché nell’incastro di quelle lettere il vero collante poteva essere solo fragilità.

 

Distrazione, cecità, adesso anche fragilità.

Livia non poteva più reggere a un flusso così dirompente di rabbia che stava per confluire dentro di lei.

Rabbia, un’altra parola.

Vanni si era mostrato in tutto il suo essere fin troppo umano, aveva confessato l’alveo di insicurezza genetica che coinvolge tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, e che se non dosata a dovere porta a compiere scelte di cui lucidamente nessuno riuscirebbe a scorgerne una qualche logica. Ma ciò accade applicando a questa visione il distacco che coinvolge gli osservatori esterni, che giudicano perché da una posizione privilegiata, perché dotti e scrutinatori di una vita che non appartiene loro.

 

Livia sapeva che per comprendere la reale percezione di ciò che Vanni le aveva appena comunicato aveva bisogno di attuare una pratica letale e ingombrante. Muoversi di bisturi dentro di lui. Andare a fondo, oltrepassare la cortina formale che li divideva e andare a vivisezionarlo, entrare dentro quei pensieri e adoperare la cura di un chirurgo che affonda la lama per dividere brandelli di carne ai fini dell’intervento. Non rimanere inerme rispetto le sue parole. Afferrarle e scuoterle, e di seguito fare qualcos’altro, di cui in quel momento non riusciva a scovarne la portata.

 

Non in quel momento, non davanti a lui.

Uscire da quella stanza, da quella casa, congedarsi come un ospite educato e occasionale, utilizzare quel registro cordiale di saluti e allontanarsi il più possibile per riconsiderare il tutto.

Livia non esitò a compiere questo rituale, e mentre afferrò Vanni per il più banale dei “Ci sentiamo”, non trattenne le sue braccia che andarono a cingere il ragazzo in un abbraccio liberatorio ma breve, per coprire un imbarazzo che riaffiorava e una fragilità, la sua, di cui temeva la venuta.

 

Perché a dispetto di quella sicurezza verbale di Vanni, Livia non era forte. Non lo era affatto.

 

Uscì da quel portone oltremodo sontuoso e si diresse verso casa.

Quando giunse vicino al suo uscio, pervasa dalla costernazione che i suoi pensieri subivano, si accorse che Rafia era seduta al suo solito posto, accanto alla ruota dell’auto.

Memore e consapevole della diffidenza della gatta, Livia non fermò il passo e continuò a camminare verso il suo portone quando d’un tratto senti un miagolio.

Stupita da quel suono, si voltò e vide Rafia immobile che la fissava.

D’un tratto la gatta si mosse verso la ragazza, con un passo inusuale rispetto al suo andamento fucace. Livia restò nella sua posizione, quando un forte stupore iniziò a trapelare sul suo volto quando si ritrovò la gatta a pochi centimetri da lei.

Senza badare molto alle consuetudini che avevano intercorso il loro strano rapporto, Livia si chinò con il preciso intento di accarezzarla e questa volta la gatta non esitò e si abbandonò a quel gesto, che fu ripetuto più volte a seguito delle fusa e dei miagolii, per terminare in giocosi giri di mani e di zampe, in un confidenziale contatto di cui Livia aveva sempre bramato l’evento.

Rafia si era fidata di lei, e adesso si atteggiava a gatta domestica che riconosce il suo padrone, con i suoi tempi e i suoi modi, e tutto questo colp^ Livia nel profondo, regalandole la seconda vera ma bonaria emozione della serata, di fronte a quello spettacolo di complicità che andava a consumarsi con qualcuno  cui da tempo si attendeva.

 

E fu in quel preciso istante che Livia comprese. Comprese l’autentico significato di quell’attesa, di come le aspettative dispiegate avessero reso la loro realizzazione, di quanto la cura e la dedizione legate a pazienza e ad un filo di leggerezza potessero produrre emozioni così vigorose e spontanee, di quanto bello potesse essere godere di un qualcosa che sembra muoversi con una prossimità che spesso non afferriamo nel giusto tempo, ma soprattutto comprese il valore del tempo e come questo, con la minuziosa supervisione della regia del destino, le stesse inviando un preciso invito ad agire.

 

Come spesso le accadeva si ricordò di una frase di Herman Hesse che aveva letto su un muro a Brera,

 “Come fiori sono gli uomini, anch’essi torneranno a primavera, non saranno più malati e tutto è perdonato”

 

Livia lasciò Rafia, che intanto si era abituata a quelle coccole uniche e vivaci, e si rialzò.

Rimase ferma. Il pensiero di Vanni risalì rapido come una scossa elettrica su un filo di rame esposto.

La primavera, il giusto tempo. Livia non poteva più crogiolarsi in quella attesa, doveva muoversi oltre. Agire.

 

D’un tratto, completamente accidentale, l’ennesima scossa.

 

“Bilbao”.

 

 

Washed out – You and I

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati