La Turandot di Liù: l’esercito di terracotta a guardia di una favola

di Valerio Tripoli

La Turandot di Liù: l’esercito di terracotta a guardia di una favola

di Valerio Tripoli

La Turandot di Liù: l’esercito di terracotta a guardia di una favola

di Valerio Tripoli

La Turandot di Liù: l’esercito di terracotta a guardia di una favola

Quando un teatro d’opera decide di inserire nel cartellone un titolo famoso, di grande richiamo e di conoscenza diffusa, sa in partenza che si confronterà con un pubblico facile ed esigente al tempo stesso: la fama dell’opera rappresentata, infatti, richiama a teatro anche chi non ne ha mai ascoltato se non l’aria più famosa, e insieme il melomane più arcigno, che di quel medesimo titolo conosce a memoria dieci e più versioni, ed è pronto a cogliere (e poi a commentare) ogni singola nota. Quando si mette in scena Puccini, però, alle obiezioni, c’è (quasi sempre) un rassicurante riparo: il maestro lucchese ha trasfuso talmente tanta forza appassionata ed appassionante nei lavori operistici, che riesce a mettere, nella sala teatrale, tutti d’accordo. Quasi sempre grandi successi, spesso applausi fragorosi, talvolta qualche lacrima, per poi uscire da teatro più sereni e consci di aver assistito ad un’opera ben fatta, dall’ascolto non difficile, dalla melodia orecchiabile: tutto quanto, insomma, occorre per richiamare il grande pubblico e riempire il teatro sino alle file più laterali delle gallerie.

Con Turandot, ultima opera di Puccini, del 1926, che chiude la stagione operistica 2012-2013, il Costanzi ha dato prova di saper comprendere il proprio pubblico: e non si creda che comprendere il pubblico dell’opera romana sia cosa difficile, poiché non ci vuole altro che prendere un titolo d’opera noto, affidarlo ad una regia il più possibile tradizionale, con qualche nome (anche datato) fra gli interpreti, affinché il successo, se non il trionfo, sia tributato. Eppure, stranamente, il teatro ha fatto un azzardo: l’opera si conclude sulla scena della morte di Liù (ultima composta da Puccini, per la sopravvenuta morte), e non sul sèguito composto da Franco Alfano, terminante con la lode all’amore del principe Calaf con Turandot.

Si ha la fortuna che Turandot è, davvero, opera d’effetto, per le masse che riunisce sulla scena quasi costantemente dall’inizio alla fine, per la evocativa ambientazione (il libretto, di Adami e Simoni, recita: “A Pechino, al tempo delle favole”), per la resa scenica, quale era solito fare Puccini, commentata da una musica travolgente dalla prima all’ultima battuta. Ping, Pang e Pong, ministri dell’imperatore, dicono all’ignoto principe, per farlo desistere dall’andare a morte sicura, tentando di risolvere i tre indovinelli che Turandot gli porrà, per conquistare il suo cuore: “O scappi o il funeral s’appressa! – Per una principessa? Che cos’è? – Una femmina con la corona in testa! – Ma se la spogli nuda… – è carne, è carne cruda – Roba che non si mangia!”. Ping, Pang e Pong, uomini di stato, che lo spettatore conosce nel I atto quali bizzarre maschere del potere, quasi grottesche figure ministre dello spietato gelo della principessa Turandot, sveleranno poi la loro natura intima e nostalgica al principio del II atto, quando, nel rimembrare le loro case lontane, apriranno allo spettatore occidentale un varco verso i mondi incantati, fatati, quasi scaturiti dalla narrazione di Marco Polo, che fanno da sfondo a questa fiaba cinese.

E quando la scena si ripopolerà per i tre indovinelli che Turandot porrà al principe, la tensione sale, unitamente al registro vocale dei due futuri amanti, con il travolgente coro di lode al principe per la vittoria riportata. Ma è allora che la disperata Turandot riceve dal principe ignoto il primo pegno del suo amore, vale a dire il rimandare all’alba del giorno successivo la sua vittoria, termine entro il quale Turandot dovrà scoprire la vera identità del principe, se vorrà mantenersi pura e, dunque, condannarlo a morte. A questo punto è il III atto vero snodo della vicenda e tramite necessario per comprendere l’intima natura della principessa: Liù, la schiava che accompagna il vecchio padre del principe ignoto, si dichiara unica a conoscere la vera identità del principe. Ella, però, resiste alle ritorte, e alla domanda della principessa, su chi abbia posto tanta forza nel suo cuore, la fanciulla risponde: “Principessa, l’amor”.

Ecco che si svela agli occhi dell’ignaro spettatore (forse non troppo ignaro, vista l’accorata supplica che Liù aveva rivolto al principe nel I atto, per farlo desistere dal tentare l’impresa degli indovinelli per amore della principessa) l’intimo sentimento della schiava, che cozza col gelo di Turandot e con l’amore verso quest’ultima da parte del principe, quasi un gioco delle parti in cui nessuno è ascoltato dall’altro. Nessuno, fin quando Liù riesce a penetrare nel cuore di Turandot: “Tu che di gel sei cinta, da questa fiamma vinta, l’amerai anche tu!”.

Poi s’uccide, e tace. Significativamente, però, è qui che s’interrompe la musica scritta da Puccini: significativamente, poiché è questo lo snodo focale a partire dal quale i due protagonisti cominceranno ad ascoltarsi, e via col lungo duetto, alla fine del quale, vinta, la principessa conoscerà il nome del principe: “So il tuo nome!… Padre augusto, conosco il nome dello straniero: il suo nome è… Amor!”. Sull’altare di Amore, vittima sacrificale, ascende sua sponte Liù; e su questa scena, questa rappresentazione romana ha voluto terminare.

Questa l’opera. Ora, si dica subito che la locandina diceva più che il palcoscenico: un affollamento di nomi di gran fama (Giordani, Remigio, fino in fondo, ad un inaspettato, insperato, Merrit, nella immobile parte dell’imperatore) al comando della bacchetta di Pinchas Steinberg, spesso sfuggevole e che sembra affidarsi più al capriccio delle onde sonore che non alle timbriche degli strumenti: il risultato è di gran forza nelle scene d’insieme, che si trasforma in potenza quando il Coro, garanzia di ogni rappresentazione del Costanzi (sotto la guida dello splendido Roberto Gabbiani) spiega il suo canto poderoso, e che però si svela quale affollamento, ogni qual volta l’orchestra resta sola commentatrice della scena. A spiccare su tutti Carmela Remigio, una buona Liù (anche per il taglio di tutto il finale dell’opera, per il quale è lei a dominare quella che diventa l’ultima scena), la quale emerge dalla massa comune, in cui si notano il vecchio Timur di Roberto Tagliavin e il melanconico Ping del baritono Simone del Savio. A parte stanno gli altri due dominatori della scena, Turandot, eponima, e Calaf, il principe ignoto: se Evelyn Herlitzius, Turandot, non potrebbe essere disprezzata per la sua grande voce wagneriana, che la annovera quale regale Brunilde o tremenda Ortrud, il ruolo della principessa cinese non è affatto pensato per le sue corde, e il suo (azzardato) omaggio al maestro di Lucca le è costato una tremenda stonatura (nel II atto, quando, disperata, si rivolge al padre per non essere concessa al principe), rivoltata in suono distorto, poi nuovamente stonatura, poi mancamento, nonché, crediamo, una laringite acuta per le grida gettate dall’epifania del II atto alla fine dell’opera; Giordani, tenore di per sé lodevole, risulta alquanto insapore sino al “Nessun dorma” (con tanto di principio di stecca, sulle parole “Principessa, ti voglio tutta ardente”), per poi guadagnarsi appena la redenzione nel lungo (ma proprio misero) acuto del “Vincerò”: sempre e solo goffo sulla scena, non essendo un Pavarotti, la sua goffezza non può, affatto, scusarsi.

È, però, la regia a guadagnarsi (assai facilmente, peraltro, visto il taglio tradizionale), la lode romana. Roberto de Simone ha trattato le grandi masse corali come fossero l’affascinante esercito di terracotta a guardia del mausoleo del primo imperatore cinese, Qin Shi Huang: la scelta ha reso marziale il grande Coro, statuario commentatore della scena, massa plaudente a Turandot e all’imperatore, che acquista la fisionomia di vero e proprio personaggio quando, al I atto, attende la venuta della luna (peraltro evocata dagli insoliti versi del libretto – “Testa mozza, esangue, squallida, amante smunta dei morti, tacitura”). La scenografia, costituita da una immensa scalea al sommo della quale sta l’ingresso alla reggia imperiale, prende, allora, forma dalla disposizione del coro, eccetto che nella scena intimistica di Ping, Pang e Pong, nonché in quella, capitale, di “Nessun dorma”.

Così si chiude la stagione operistica romana 2012-2013. Il sipario cala sul funerale di Liù: forse che l’azzardo, mitigato dalla fama dell’opera, sia galeotto di future scelte coraggiose da parte del teatro? Nella nuova stagione 2013-2014 non sembrerebbe, ma restiamo (quanto pazientemente?) fiduciosi.

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