Il morto che parla

di Sabrina Cicala

Il morto che parla

di Sabrina Cicala

Il morto che parla

di Sabrina Cicala

Il morto che parla

Non è penalmente rilevante, premettiamo.

Il 20 agosto nella chiesa di San Giovanni Bosco si sono celebrati i funerali di Vittorio Casamonica.

I Casamonica sono una famiglia di origine sinti, presente nel Lazio dagli anni settanta. 350 affiliati, secondo le stime della commissione parlamentare antimafia. Meglio, una «banda radicata sul territorio che non ha, però, la struttura verticistica e la capacità di affiliazione delle organizzazioni criminali mafiose. Si tratta di ragazzi che agiscono in totale autonomia che hanno come punto di riferimento gli anziani del clan» scrivono i giudici. Un sistema “a pedaggio”, con check point per pagamento e ritiro dosi, strade ristrette per il controllo del passaggio. I nuovi mestieri di famiglia.

Con la decisione della corte d’Appello del febbraio 2014, i 360 anni di carcere comminati al clan Casamonica sono stati ridotti e dodici dei trentuno condannati sono stati assolti.
Si legge nella sentenza tanto… Ma mai un numero, “416 bis”. Una visione panmafiosa è pericolosa quanto quella che non vede la mafia.

Quindi ci stiamo indignando per funerali, leciti, di una persona mai condannata e a cui mai è stato contestato il reato di associazione mafiosa?

Mafia capitale è un processo “d’avanguardia” perché vuole superare la resistenza culturale che impedisce di riconoscere che la mafia a Roma esiste. E non è solo quella importata dalle zone tradizionalmente mafiose. Non è la sola mafia della droga made in Calabria o di pizze firmate ambiguamente “Ciro”. Può essere quella di un monopolio di appalti, del lucro sui migranti, dell’usura nelle periferie. Se, e solo se, mi suggeriscono le aule universitarie, si rinvenga quel metodo mafioso di intimidazione, espressivo di un controllo sociale. È la forza relazionale e territoriale a scrivere un “bis” che fa la differenza tra una associazione criminale semplice o mafiosa. E se nelle aule di tribunale il “supermarket della droga” non ha caratura mafiosa, se nulla rivelano i contatti con l’ex cassiere della banda della Magliana Enrico Nicoletti per la vendita al clan dei debitori insolventi né i rapporti con le ‘ndrine dei Piromalli-Molè e degli Alvaro, se il reinvestimento di capitali sporchi non suggerisce più di una ordinaria criminalità, certo sentenze non saranno pronunciate con la condanna per “spendita abusiva di titolo regale”.

Eppure quel “hai conquistato Roma, ora conquisterai il Paradiso” non può suonare bene neppure per i più romantici. “Matrimoni, battesimi e funerali finiscono con l’essere occasioni importanti per consolidare all’interno i rapporti tra famiglie mafiose e per coltivare, all’esterno, quell’apparenza di normalità, di rispettabilità che esce rafforzata dalla legittimazione diretta o indiretta che sia del rapporto instaurato con la Chiesa”, spiega la sociologa Alessandra Dino. Sono lezioni di costruzione del consenso, sono recinti che segnano i confini tra ciò che si deve chiedere e ciò che si può fare, indisturbati. Più che bande di Magliana memoria, sono queste manifestazioni di dominio il vero debutto in società. E l’ “ignorantia funeris”, qui, più che scusare, sembra condannare chi, a Roma, dovrebbe governare.
Al di là delle rivoluzioni culturali, qualcosa di irregolare in questo funerale c’è, per i più legalisti.

Il volo dell’elicottero non è stato comunicato. L’Enac “sta per disporre la sospensione cautelativa della licenza del pilota ai comandi dell’elicottero e ne sta dando relativa informazione alla Questura di Roma. In  arrivo  su Roma  ha  chiesto alla torre controllo l’autorizzazione all’attraversamento dello spazio aereo controllato, effettuando successivamente una deviazione su Roma a quota inferiore alla minima che, sulla città, non  può  essere meno di 1.000 piedi, ovvero circa 330 metri. Il sorvolo della città di Roma è comunque vietato agli elicotteri monomotore”.

Ed il lancio di petali, oltre a poter non incontrare il gusto dei più raffinati, richiedeva una specifica autorizzazione che l’esercente non aveva.

Il corteo funebre avrebbe bloccato via Tuscolana. I vigili sono intervenuti per far defluire il traffico. “Il rischio era che andasse completamente in tilt la circolazione nell’intero quadrante della città. Sono state perciò predisposte chiusure e deviazioni”. Una soluzione dell’ultimo minuto, insomma, visto che dalla questura arriva il comunicato secondo cui “nessuna notizia relativa allo svolgimento del funerale era stata comunicata. Il defunto, morto nelle prime ore del 19 agosto, dopo una malattia di circa un anno, risulta ai margini degli ambienti criminali, come confermato dalle recenti attività investigative nel corso delle quali lo stesso non è mai emerso”.

Sapevano, invece, alla Corte d’appello di Roma. L’avvocato Giraldi, difensore di Antonio Casamonica, figlio di Vittorio, aveva chiesto l’autorizzazione per l’allontanamento dal domicilio dove si trovava in regime di arresti domiciliari. E informate dovevano essere anche le “autorità preposte al controllo”. La versione diffusa alle agenzie vuole che siano state rispettate le procedure come da prassi e avvisati gli uffici competenti, come il commissariato di Tor Vergata. L’autorizzazione alla partecipazione alle esequie sarebbe stata trasmessa al commissariato di zona. E poi tutto tacque. La burocrazia miete ancora vittime.

Nel 2012 il questore Fulvio Della Rocca vietò lo svolgimento in forma solenne di Antonio Moccia, ventenne morto in un incidente stradale, per motivi di ordine pubblico e sicurezza pubblica. Sarà stata una carrozza trainata da cavalli più mansueti, quella dei Casamonica.

Silenziosi, anche, questi uomini. Perché della gigantografia con la foto del defunto e la scritta “Re di Roma” non si era accorto il sacerdote, don Giancarlo Manieri. “Non ne sapevo nulla, non ne ero stato informato. E comunque si è svolto tutto fuori dalla chiesa”.

C’è una cosa di cui possiamo essere fieri al Sud. Della bravura che ci viene dall’esperienza. Perché abbiamo imparato, dopo tanti “sacerdoti e vescovi negazionisti”, che Dio, se può vedere nell’urna elettorale, può vedere anche quello che accade fuori dal sagrato.

Il vescovo di Acireale, Monsignor Raspanti, decretò nel 2013 che fosse privato delle esequie ecclesiastiche in tutto il territorio della Diocesi di Acireale “chi è stato condannato penalmente per reati di mafia, con sentenza definitiva, dal competente organo giudiziario dello Stato italiano, se prima della morte non abbia dato alcun segno di pentimento. In ogni caso va verificato che l’eventuale concessione delle esequie non causi pubblico scandalo dei fedeli. La privazione delle esequie ecclesiastiche comporta anche la negazione di qualsiasi messa esequiale”. Perché è vero che le porte della Chiesa sono aperte a tutti, ma è anche vero che “le esequie cristiane costituiscono una situazione particolarmente favorevole per annunciare la morte e la risurrezione del Signore non solo ai credenti ma anche a coloro che non credono. Infatti i gesti e le parole del rito che annunciano il Vangelo della speranza possono essere eloquenti per tutti, nella misura in cui sono compiuti in spirito e verità”. Nel nostro caso non ci sono condanne, ma si può trarre un principio comune: “Tale diniego è finalizzato alla restaurazione dell’ordine turbato, al fine di coesione di tutti i fedeli nella Chiesa e alla aspirazione a che nulla possa costituire uno scandalo per i credenti e motivo di allontanamento dalla retta via”.

Don Pino Demasi, vicario della diocesi di Oppido-Palmi, a fronte del divieto disposto dal questore di svolgere i funerali in forma pubblica, non fa entrare in chiesa la salma di Domenico Alvaro, boss di Sinopoli. Antonio Alvaro, figlio del boss, reclama: “definire boss una persona che durante la sua vita si è sempre palesemente tenuta distante da un certo ambiente delinquenziale mi sembra non solo una esagerazione, ma soprattutto una mancanza di fedeltà giornalistica”. Avrà letto queste dichiarazioni il nipote di Vittorio Casamonica, Luciano Casamonica, che così si rivolge al ministro dell’Interno Alfano: “Se io faccio un matrimonio e prendo la Rolls Royce non è che c’è la mafia. Noi Casamonica abbiamo sempre fatto le feste alla grande, da quando siamo qui a Roma. Signor Alfano non siamo mafiosi, non siamo persone cattive”.

Ora, non è penalmente rilevante. La Chiesa, però, avrebbe potuto intervenire e non l’ha fatto. Le forze dell’ordine avrebbero potuto intervenire e non l’hanno fatto. Le istituzioni avrebbero potuto intervenire e non l’hanno fatto, se non a posteriori per autoaccusarsi vicendevolmente.

Non è penalmente rilevante, però, la prossima volta, scegliete una musica più sobria. “Il Padrino” lascia poco spazio all’immaginazione.

di Sabrina Cicala

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