Odio le frontiere, i confini. I confini del corpo, della scrittura, dei comportamenti, degli Stati.
Murid al Barghouti
Il muro dell’apartheid.
Lo chiamano in diversi modi, ma alla fine resta tale.
Trovarcisi di fronte, dentro e aldilà rende l’idea in maniera abbastanza eloquente, e inquietante.
La barriera in realtà è lunga725 km, circonda tutta la Cisgiordania, e solo in alcuni tratti assume le sembianze di un enorme mostro di8 metri dalle reminescenze pinkfloydiane (ogni20 metri ci sono inoltre puntuali le torrette con annessi cecchini).
I ragazzi a Ramallah mi raccontano che però in molti punti, di notte, è facile infilarsi o scavalcare. Uno di loro, con aria orgogliosa, mi dice che capisce e parla un po’ di ebraico e più di una volta è andato e tornato da Tel Aviv senza che si accorgessero che era un arabo.
A Betlemme si giunge con un bus da Gerusalemme Est, poi si costeggia il filo spinato e questa bestia grigia, fino ad arrivare al famigerato check-point. L’aspetto grottesco della situazione è che io, occidentale, posso andare e tornare quando e come mi pare, mentre alla popolazione indigena è vietato. Quasi nessun palestinese della West Bank, per esempio, può recarsi a Gerusalemme, a parte qualche fortunato che ancora lavora in Israele (prima della seconda intifada erano molti di più, ma da un decennio a questa parte è difficile anche per un arabo israeliano). Queste persone ogni giorno devono presentare i documenti, rispondere alle domande, farsi spogliare, controllare e spesso maltrattare da annoiati ragazzini e ragazzine in divisa, che mentre io passo mostrando il passaporto mi fanno cenno di proseguire velocemente, che evidentemente hanno di meglio da fare. Appunto, devono bloccare i signori che sono in fila davanti a me, e che dovranno aspettare un bel po’ prima di proseguire la loro giornata.
Accadono anche incontri curiosi, come quello con una coppia americana di anziani professori, entrambi impegnati per un semestre a Tel Aviv. Anche loro vogliono vedere la West Bank, nonostante tutti i consigli contrari e gli allarmismi dei loro colleghi. Camminando per i dedali dell’elefantiaca struttura si guardano attorno attoniti e infastiditi: tutto questo è stato costruito con i nostri soldi. È così che Israele utilizza i milioni di dollari che il nostro stato ogni anno gli regala.
La sensazione è quella di trovarsi dinanzi all’ennesimo brutto scherzo della storia. L’ennesima limitazione, l’ennesima umiliazione. Una terra in cui l’assurdo è da tempo becera normalità, in cui un bombardamento fa meno notizia di un ricongiungimento familiare.
È inutile forse ricordare che nel 2004 la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha dichiarato che questa barriera viola il diritto internazionale.