Bilbao Solo Andata – Vanni

di Vittoria Favaron

Bilbao Solo Andata – Vanni

di Vittoria Favaron

Bilbao Solo Andata – Vanni

di Vittoria Favaron

“How much longer can you play with fire before you turn into a liar?”

Bruciare dentro una bugia.

Indietreggio da questo muro. È un colpo dirompente. Come se la vita fosse un percorso di segni sparsi o nascosti tra le cose che la compongono. Muri, stoviglie, alberi, pavimenti, soffitti, tombini, cabine telefoniche. Ogni oggetto racchiude dentro di sé un pezzo effimero di realtà che aspetta di rivelarsi, o aspetta semplicemente che tu la possa scovare, per poi guardarla, riconoscerla ed inghiottirla, e lei entra dentro di te, si accomoda dentro, è parte di te, come un brandello di fegato o un lembo di intestino.

Una bugia, la mia personale bugia. Raccontarsi, dentro un susseguirsi di falsità o finzioni.

Ricordo la mia prima espressione di  menzogna. Avevo 8 anni. Rompere una campanella di porcellana dopo aver urtato il mobile su cui era posata e vederla cadere e frantumarsi sul marmo sotto. Raccolsi ogni coccio per poi gettare il  tutto nel fondo della pattumiera, preoccupandomi che nessuno potesse vedermi, perché il passaggio successivo era tragicamente prevedibile: accusare la governante di turno che sarebbe stata educatamente licenziata il giorno dopo. Disumana la freddezza di mia madre riluttante a qualsiasi tentativo di quella piccola manovale a ripristinare l’ordine veritiero dei fatti, contraria ad ascoltare la versione di quella donna che aveva servito la nostra casa e noi tutti per alcuni anni. Carne da scambio, merce a buon prezzo. Totale la portata della mia indifferenza, privo, Io, di qualsiasi senso di colpa, manifesta superiorità sociale mostruosamente ripiegata contro ogni possibile ostacolo alla salvaguardia dell’apparenza, della perfezione strutturale della famiglia, del ceto, della borghesia fornita su vassoi d’argento e ipocrisia.

Andai negli anni ad ornare la mia vita con una carta da parati composta da tasselli barocchi di bugie. Barocchismo prontamente ereditato da un Dna pesante ed inevitabile, alimentato dalla presenza possente di un padre dedito all’affermazione di sé, che non prevedeva compromessi con il mondo fuori, di una nobiltà apparente che ha sempre avuto il sapore della sua acqua di colonia e dei sigari che accendeva all’occorrenza, nelle cene di lavoro, nei pranzi di circostanza, senza mai domandarsi se tutto il concerto di commensali affamati di prestigio osmotico e presenzialismo rasente il proselitismo, fosse davvero necessario.

Oreste non si era mai posto nessuna domanda in merito a quello che fosse giusto per la restante parte della famiglia, tronfio della sua sicurezza dettata da un denaro visibile e dal suo ruolo di burattinaio seriale di esistenze altrui.

Siglava fogli, gestiva patrimoni, incamerava ricchezza, sincerandosi che tutto dovesse procedere secondo la sua linea, dentro e fuori le mura del suo spocchioso studio.

Mia madre Rachele al suo fianco, imperturbabile moglie e compagna di complice plagio quotidiano, fiera nelle sue pose da parti sceniche, rassicurata da gioielli vistosi e buone maniere, da servitù al seguito e posate antiche, non tentava neppure di portare il suo sguardo oltre quel circo sfacciato, quella fotografia che raffigurava una morte vigile di opulenza e benessere, perché non esisteva per lei un oltre, e non concepiva il trambusto della vita fuori, come se non ci fosse nient’altro che quel racconto gelido, perfetto.

La mia storia è sempre apparsa come una comune didascalia al lato di un profilo di figlio benestante e viziato, con indici di ribellione che sprizzavano il tempo di un rimprovero fugace e distratto, di comunicazione rafferma nell’alveo di una cronologia inesistente, intorno a un salone troppo grande per contenere le nostre tre anime, in cui le singole parole rimbombavano producendo un suono agghiacciante e per questo volutamente evitato nella sua replica. Come del resto si evitava ogni riferimento ai miei sporadici dinieghi scolastici, frutto di un’ asfissia da bunker altrettanto sontuoso, in quell’istituto privato a cui ero stato destinato per seguitare il protocollo familiare. Migliori scuole, miglior ambiente, conoscenze giuste, amici per bene, amici di amici, il medesimo raggruppamento di anime infette dal gusto del niente, perché il loro gusto era intriso della loro effimera ricchezza.

Qualsiasi cosa avessi potuto fare, qualsiasi sgarbo alla normale quiete, sarebbe stato sanato da ingenti somme di danaro che andavano a finanziare un silenzio consenziente, senza alcun pericolo di turbamento o scandalo, rimesso a nuovo dal sistema sovvenzionato da persone come me, in una macabra danza di ciechi carnefici che si nutrivano dei loro stessi figli per alimentare i loro appetiti insani, affinché l’ordine non venisse mai destituito, e le torri d’avorio in cui ognuno aveva occupato il suo posto,  rimanessero erette senza possibilità di sconfinare nel tessuto reale. Zombie, anche se vestiti bene, ma pur sempre zombie.

Vano ogni tentativo di fuga, per istituire una radiografia di ragazzo abbiente e contrario al sistema evitando che potesse andare a scorrere nelle cronache dei luoghi comuni. Previamente inutili le mie piccole evasioni dentro luoghi che non appartenevano al naturale corso dei giorni, in mezzo a persone che non avrebbero mai compreso tanto ripudio verso il benessere, che mi avrebbero etichettato come l’ennesimo ingrato esemplare di quella cerchia composta da pedine di malcontento assurdo, che vuole declassare se stesso per darsi un tono decente allo specchio e sputare contro una fortuna inevitabile, contro una condizione invidiabile, per il puro gusto di appianare noia.

L’ennesimo radical chic che viaggia in un’ipocrisia vera, a detta loro, che vomita malessere in alternativa al possedere ogni cosa e quindi in astinenza di voglie e desideri, e quindi alla ricerca del nuovo, ma per autoreferenzialità, perché incapace di comprendere appieno il rumore della normalità, come se ce ne possa essere un’unica che vale per un collettivo esteso. Non potevo contenere la normalità che mi veniva buttata in faccia dagli amici che avevo raccattato al di fuori del mio ordinario, persone incontrate in giri di bevute dentro quartieri banditi ed elusi dalla vita che mi scorreva dentro, dal sangue del mio sangue, che non ebbero mai il coraggio di impedirmi quelle deviazioni.

La stessa codardia, l’ennesimo bene servito in eredità, che mi portò a mentire ripetutamente sul mio conto, a non dichiarare il mio cognome, a non descrivere la mia casa, i miei agi, le mie opportunità. Altre bugie, che avevano assunto la consistenza di meravigliose prove di sincera consapevolezza, perché in fondo era di quella natura la verità che avrei voluto dichiarare.

Come terribilmente vera e tangibile si è dispiegata la mia viltà in una mancata scelta. Perché la grossa bugia è stata reiterata perché mai ostacolata da una nettezza nello scegliere.

Ho camminato in equilibrio su due pedane poste a distanza parallela su cui erano marchiate due diverse dichiarazioni d’intenti per la vita che macinava presente e ipotetico futuro. Avrei potuto svincolarmi totalmente e procedere verso la pedana adiacente, ma ho preferito ripararmi attorniato da quelle ombre rassicuranti in cui ero nato e in cui continuavo a crescere.

Ho perennemente tenuto lo sguardo incollato sulla pedana che indicava un’alternativa altrettanto benevola, che incitava ad un’esistenza tutta da mordere, da conquistare, senza margini di scontata riuscita, cosparsa di affannosi ostacoli, come di traguardi di una banalità a me ignota, perché del tutto congenita.

Ho tenuto il piede traballante su quell’asta di legno che doveva sorreggere quella parte di me confusa e insofferente, quel pezzo di me che non trovava quiete e cercava affannosamente un’emersione, una collocazione nel mondo meno destabilizzante, un urlo vistoso per troncare ogni soffocamento emotivo, per rendere palese all’esterno il mio riluttante profilo scontato, per affermare me stesso e non il mio sangue, impormi nel mondo perché conoscevo i suoi accadimenti, e non perché mio padre aveva alzato un telefono e scambiato un favore.

Ricordo nitidamente quando provai ad esplicare una possibile scelta verso la direzione contraria della mia pedana salvifica, studiare Beni Culturali e non morire ulteriormente a causa di studi accademici finalizzati a costruire una credibile classe dirigente e continuare a salvaguardare un sistema di giovani insicuri che giocano a fare i padri per prendere un giorno il loro posto, e quindi iniziare a sostituire se stessi, cresciuti peggio dei consanguinei genitori.

Ricordo il momento esatto in cui comunicai trionfalmente la mia scelta, lo sguardo impietoso e cupo di mio padre che decise di non proferire alcuna parola e pensò, nel mentre, di versarsi uno dei suoi rum invecchiati innumerevoli anni, tenendosi in piedi accanto alla poltrona in cui era seduta mia madre, che non riuscì a controllare il suo tic facciale, manifesto di un evidente disappunto.

«Oreste, chi conosciamo al Ministero dei Beni Culturali?» fu l’unica cosa che Rachele riuscì a formulare, e in quell’attimo mi resi conto di quanto ingenuamente mi fossi illuso di poter concludere una guerra laica con margini di vincita, e mi ritrovai a sprofondare dentro la peggiore delle lotte, quella in cui si palesa spietata la tua totale sconfitta.

Decisi di non perpetuare il conflitto, di perseverare nella mia duplice bugia, di assecondare ogni tirata verso quelle estremità che tenevano la stretta al mio corpo ed estendevano la morsa verso tutto quello che ivi era contenuto.

Continuai a vagabondare nelle vite altrui scambiando all’occorrenza la maschera più appropriata, con la costanza di un eroinomane che dichiara la sua affiliazione a ciò che lo sta decomponendo lentamente, senza preoccuparmi della mia ambiguità, senza ricercare l’aiuto altrove, con una tranquillità che avrebbe suscitato paura se solo fosse stata confutata a fondo.

Sopravvivevo, e non negavo di ripetermelo spesso, né mi operavo affinché quello stato così deprimente potesse tramutarsi in qualcosa di diverso.

Perché in fondo anche la mia è stata una scelta. Quella di evitare qualsiasi forma di scelta, e collezionare brandelli di falsità come si impilano perle su un filo non totalmente liscio, in cui le palline faticano a scorrere perché bloccate a tratti da una superficie ruvida. Ma prima o poi si allineano. E io come loro.

Conobbi Claudia, ossia il prototipo della ragazza ideale che presumibilmente mi avrebbe accompagnato a lungo, muovendosi da amante e compagna fedele e premurosa, accondiscendente e repentina a tacere quando le circostanze richiedevano il suo silenzio obbligato. Nella costante emulazione scenica di mia madre, Claudia si mostrò esattamente come il protocollo le imponeva di atteggiarsi, senza una nota fuori tono, senza un rumore stridente che avrebbe potuto crearmi un dubbio o un’incertezza nei suoi confronti. Un sorriso teatrale e impostato, avulsa da ogni vizio, dichiaratamente astemia e intollerante sul fumo, studentessa di medicina con forti tendenze al volontariato cattolico.

Niente da eccepire. Fu inglobata nella mia vita con la stessa naturalezza che imparai ad applicare a tutto il resto, e mi rendevo conto del grado di bravura che stavo accumulando circa le mie prove di sopravvivenza ogni volta che mi rendevo conto della sua completa abnegazione e della sua incredibile cecità circa le mie manifestazioni di falsità nei suoi confronti. Fingevo con delle fattezze talmente palesi che mi stupivo della sua indifferenza, dei suoi sorrisi spontanei, di come riuscisse a godere mentre facevamo l’amore nonostante la mia totale distrazione, al netto della rabbia con cui la prendevo e dell’intensità che era veicolata verso una donna che non era lei, anche quando spudoratamente evitavo di incrociare il suo sguardo, quando non attendevo il suo piacere, quando non ostentavo romanticismo.

La sua costanza divenne la sua forza, donandomi quella serenità che solo il palpabile tatto delle certezze può creare, e quella forza mi portò a non rinunciare a lei, a costruire il nostro rapporto come se fossimo due amanti genuini e ancorati l’uno all’altro secondo i comandamenti dettati da un sentimento autentico. Quella forza mi rese anfibio nei confronti di ogni cedimento, mi concesse un’amnesia emotiva e portò ad edificare una verità composta da stratificazioni di bugie non espresse, quindi taciute, quindi innocue.

Poi sei arrivata tu, Livia. Sono giunti i tuoi occhi, prima di tutto. Due fessure taglienti e spiegate, dal colore della terra che sovrasta il candore del cielo, che hanno puntato il loro affilato sguardo su di me, strattonandomi senza che io potessi neppure prevedere l’agguato.

È giunta la tua fierezza, le tue spalle sinuose coperte da un giubbino di pelle vintage color verde petrolio, la tua sagoma che dondolava fluida mentre tu muovevi le gambe come a seguire la musica che avevi lasciato dentro il locale.

Mi è arrivato il fumo della tua sigaretta, quel walzer di anelli aerofagi che lentamente si perdevano nel pulviscolo invisibile di quella sera sui Navigli, che ondeggiavano al pari dei tuoi capelli, sorretti in un’architettura svogliata di un fermaglio di legno sottile.

Ho percepito quel sorriso velato che mi hai servito quando hai percepito il mio sfacciato sguardo nella tua direzione, che indicava una curiosità sopravvenuta senza che potesse trapelarti sul resto del volto.

Ho deglutito il sapore di quella verità che mi avevi mostrato con tutta la potenza della tua assenza di filtro. Eri vera, ed io ero completamente imprigionato dentro la mia cattedrale di mostruosa finzione.

Senza darmi neppure il tempo di impedire la mia decomposizione intima, hai oltraggiato, pezzo dopo pezzo, il tempio stantio in cui mi ero rinchiuso, hai sfondato ogni porta dietro cui avevo nascosto quei pochi avanzi di autenticità che avevo serbato per amor proprio. Non ti sei accontentata del resoconto impietoso che tentavo di servirti per non far trapelare la mia difficoltà nello starti accanto, nell’accettare la narrazione di un’altra vita possibile che tu costantemente ostentavi, quella sincerità e quella purezza che componevano i tuoi abbracci, quella nitidezza di parole e gesti che mi attiravano a te in modo incontrollato, e i miei goffi tentativi di non cedere alla perdita del mio sopravvivere e riprovare a saltare nuovamente l’asta, a saldarmi a te.

Sono stato goffo, sono stato spesso scostante, diffidente, spesso ingiusto, immobilizzato in un autismo cardiaco che andava a compromettere tutti i tuoi sforzi di regalarmi un pretesto di felicità cui non potevo cedere.

Ho anteposto la mia mancata scelta al vaglio di una normalità rivelata, spendibile, semplice. La tua normalità che andava a riflettere la tua meraviglia.

Ti ho lasciato andare nel momento in cui tu hai deciso ancora una volta per entrambi, quando ti sei rivelata anteponendo il tuo coraggio a ogni mia vile trattenuta d’intenti, hai messo a nudo te stessa e hai scoperchiato me, hai frantumato l’ennesima maschera con cui mi ero presentato su quel binario, mi hai consegnato la chiave di ogni possibile via d’uscita dalla mia cancrena esistenziale, per poi fuggire via.

E ho atteso ulteriore tempo prima di cogliere il senso del tuo operato, prima di farmi inondare da quell’amore vistoso e profondo con cui hai siglato il nostro addio e hai voluto sancire la mia rinascita.

Ho atteso, perpetuando nell’errore ancora una volta.

Sono di fronte questo muro, in una città che tu mi hai segnato su una mappa invisibile di cui hai rivendicato una momentanea paternità a fronte della mia ennesima indifferenza.

Ha ulteriormente segnato le mie coordinate, e io sono qui, a Bilbao.

E vorrei ritrovarti dinanzi a me, nella tua fierezza e dentro quel corpo di donna acerba e di ragazza incosciente circa la splendida emulsione di bellezza che riesci a rendere, a sprigionare.

Vorrei ricambiare il tuo sguardo con i miei occhi ritrovati, e vorrei sfogarmi con tutte le parole che la tua assenza mi impedisce di volgerti.

Vorrei urlarti la mia ammissione di colpe.

Ho sbagliato Livia. Sono una persona in perdita, ho acutizzato le mie più riluttanti debolezze, ho amplificato ogni mia bruttura. Ho errato fino a perderti.

Sono un ragazzo completamente spoglio di ogni orgoglio. Debole. Sono un uomo, Livia, e avrei perpetuato il mio silenzio circa le mie insicurezze, le mie indifferenze, avrei preservato me stesso. Lo ammetto. Avrei continuato a scegliere me e il mio microcosmo dentro cui mi destreggiavo come un burattinaio. Come mio padre.

Non ho sopportato il giudizio che proveniva da ogni tua parola divelta rispetto ai miei piani precostituiti. Ho tentato, utilizzando tenacia e ostinazione, di preservarmi, procedendo verso nuovi errori, come si comportano gli uomini del resto, dentro ulteriori sbagli.

Ti chiederò di perdonarmi, perché non ha più senso fingere qualcosa che non si possiede più.

Ammetto il mio stato penoso di uomo distrutto. Accetta le mie lacrime, accetta di vedermi senza filtri, accetta di perdere ogni stima per quest’assenza di tempra, per questa mancata manifestazione di piglio virile.

Sono un uomo Livia, e non c’è altro da aggiungere.

E ti chiedo di amarmi. Ama quest’uomo, ama le sue debolezze, ama il suo cedere, la sua sconfitta, ama i suoi errori.

Ti supplico Livia, Amami.

Perché ho bisogno di vivere in un’altra bugia.

 
 
Breathe – The Cinematic Orchestra

4 risposte

  1. Hai ragigunto il culmine. Non le l’aspettavo. Me l’avevi detto e me l’avevano detto. Ma non me l’aspettavo. E stavolta non ho critiche, né riserva. Sono sedotta e conquistata. Tu scrivi.

  2. La capacità di descrivere così compiutamente l’animo di un uomo, essendo tu donna, fa di te una vera giovane scrittrice.

  3. Conosco molti Vanni, ma nessuno saprebbe raccontarsi così…vorrei conoscere tutto l’universo di quest’uomo, ma al contempo l’hai tratteggiato con cura; sono sazia ma ne vorrei ancora. Bravissima.

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