ANSELM KIEFER: REINTEGRARE LE TENEBRE (Parte II)

di Salvatore Setola

ANSELM KIEFER: REINTEGRARE LE TENEBRE (Parte II)

di Salvatore Setola

ANSELM KIEFER: REINTEGRARE LE TENEBRE (Parte II)

di Salvatore Setola

Parte I, https://www.thefreak.it/anselm-kiefer-parte-1/

L’artista tedesco sembra ragionare in questi termini: nella Genesi, Dio separa la luce dalle tenebre, quindi se le separa, vuol dire che originariamente stavano insieme. La spiritualità di Kiefer non è tanto di matrice cristiana quanto influenzata dallo gnosticismo ebraico: bene e male si danno nello stesso momento, condividono cioè la medesima genesi. La Cabala ebraica concepisce il male come un’emanazione stessa di Dio, laddove invece la teodicea cristiana tende a inquadrarlo come un allontanamento dal bene, consentito – ma non causato – da Dio attraverso il libero arbitrio concesso all’uomo. Non potrebbe esserci, allora, immagine teologicamente più distante dalle figurazioni caravaggesche di quella di “Seraphim” (1982), dove l’entità angelica del titolo si manifesta nella duplice essenza del serpente (simbolo del peccato) e del cielo (simbolo della virtù ) perfettamente intercambiabili per mezzo della scala che li mette in comunione. Il divino qui non è univoco, non è l’apoteosi del bene, di ciò che è sommo nell’universo, ma si esprime attraverso l’unità del duplice: ascesa e caduta hanno identico valore.

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Seraphim (1982; olio, paglia, emulsione e gommalacca su tela

L’operazione filosofica, psicanalitica addirittura, di Kiefer è dunque reintegrare le tenebre, le tenebre del passato e della memoria. In questa prospettiva, l’artista ricorre a una simbologia che attinge all’incommensurabile orrore dell’Olocausto e che, nel corso della sua carriera, gli ha portato tante critiche da parte di esegeti evidentemente intimoriti dal doversi confrontare con il fantasma della storia, dal dover riconoscere in loro stessi quel fantasma: «Nei miei lavori non c’è assolutamente l’ideologia nazista. La maggior parte delle immagini che uso appartengono alla storia prima del nazismo. Il mio tentativo è di riscattarli dagli abusi ideologici, di cercare di liberarli dalle distorsioni che hanno subito». Il linguaggio pittorico di cui si serve Kiefer non è descrittivo o narrativo, non invoca cioè lo spirito nazista – ritirandolo dentro il presente – bensì lo evoca (etimologicamente chiamare fuori) al fine di guardalo dritto negli occhi, farci i conti, esorcizzarlo. Cesare Pavese ha scritto che non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola. Kiefer attraversa la tragedia dell’Olocausto frugando tra i fiumi di sangue e le montagne di cadaveri, tra le sevizie e gli stupri, trovando nelle parole di Paul Celan una testimonianza liricamente violenta alla stregua dei soprusi che il poeta rumeno, come tutti i deportati, aveva subito.

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Sulamith (1983; olio, emulsione, gommalacca e paglia su tela)

I versi sincopati di “Fuga di morte” ispirano a Kiefer una serie di dipinti intitolati “Margareth” e “Sulamith”, le due donne citate nella poesia come simboli delle componenti che insieme hanno contribuito alla costruzione dell’identità nazionale: i capelli biondi di Margareth, in cui si incarnano le radici ariane, e i capelli cinerei di Sulamith, allegoria della controparte ebrea sopraffatta. In un capolavoro di dirompente potenza dipinto nel 1983 il nome Sulamith è inciso su delle arcate che si ergono maestose lungo lo scorcio claustrofobico del pavimento. Si tratta del sacrario costruito in onore dei “grandi soldati tedeschi” dall’architetto Wilhelm Kreis. Kiefer ne cita la struttura, anche se rispetto alla monumentalità geometrica che caratterizza l’edificio reale, la sua versione dipinta assume un aspetto tetramente medievaleggiante. Nel fondo della cappella funeraria arde nuovamente un rogo, ancora una volta reminiscenza della spiritualità ebraica e al contempo un richiamo agli antichi riti germanici legati al fuoco che i nazisti avevano riportato in auge. Con questa soluzione provocatoria, quella di commemorare lo sterminio degli ebrei sull’altare preposto ai soldati tedeschi, le due anime della Germania si ricongiungono nella celebrazione di un lutto comune. Il lutto di essere i carnefici di se stessi: «Lo sterminio degli ebrei ha amputato la Germania. I tedeschi non se ne rendono ancora abbastanza conto, ma hanno spezzato una cultura che era unica. Il massacro degli ebrei è al tempo stesso un suicidio della cultura tedesca che era un tutt’uno di mitologia germanica e spirito ebraico. Io cerco di ricreare quell’unità perduta».

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Reintegrare le tenebre significa allora ritrovare quell’unità perduta, riconoscere l’altro da sé dentro di sé, il male insito nella propria storia e nel proprio destino. Significa ammettere che ogni identità è un’identità complessa, che in noi non può esistere purezza alcuna. Detta così può sembrare una sentenza, una condanna alla sfiducia eterna. In realtà l’impura arte di Kiefer si erge proprio per questo a baluardo contro qualsiasi risveglio dell’ideologia nazista. Perché se ci dice che l’uomo è impuro, che la luce non vince l’ombra ma che la luce è l’ombra, allora questo implica che ogni idea di purezza, a cominciare da quella di razza ariana, è un’ipotesi assolutamente impraticabile. Kiefer sconfessa la mitologia nazista accettandola come una fase dolorosa della storia. Avrebbe potuto prenderne ipocritamente le distanze, minimizzarla a incidente di percorso, dire – in pieno diritto – “io non c’entro, sono nato dopo”. Invece si è fatto carico di crimini che non ha né commesso né tacitamente avallato, chiamandoli per nome. L’arte di Kiefer non ci libererà dal male, quantomeno ci aiuta a individuarlo. Redimerlo sta solo a noi.

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