Al cinema lo splendido racconto di "Itaker"

di Marica Dazzi

Al cinema lo splendido racconto di "Itaker"

di Marica Dazzi

Al cinema lo splendido racconto di "Itaker"

di Marica Dazzi

In un sistema cinematografico come quello italiano, dove sembra vigere incontrastata la dicotomia fra film record ai botteghini ma con bassissime aspirazioni artistiche e produzioni con tali ambizioni da risultare per lo più inavvicinabili ai non addetti ai lavori, “Itaker” rompe l’equilibrio e dimostra come si possa confezionare un ottimo prodotto, di qualità, senza dover cedere nulla al piacere della visione.

La storia di “Itaker”, opera seconda del giovane regista Toni Trupia, prende vita fra l’Italia e la Germania dell’inizio anni Sessanta.

È il 1962 quando, alla morte della mamma, il piccolo Pietro, nato e cresciuto in un paesino del  Trentino-Alto Adige, viene affidato ad un giovane napoletano dal passato burrascoso con l’obiettivo di rintracciare il padre emigrato e ormai stabilitosi in Germania.

L’impresa, all’apparenza di facile risoluzione, si dimostra invece essere più complessa del previsto.

Le difficoltà incontrate lungo il percorso permettono lo svilupparsi di un rapporto insolito, al di fuori delle regole e delle convenzioni, reticente e spontaneo come i due protagonisti.

Da una parte un ragazzino di nove anni (interpretato dall’esordiente Tiziano Talarico),  improvvisamente orfano di una madre amorosa e avvolgente e già abbandonato dal padre, che da un tranquillo paese di montagna viene catapultato nel meccanico mondo dei lavoratori in fabbrica,  accompagnato solo da uno sconosciuto dalle velleità poco legali.

Dall’altra un uomo del sud Italia, costretto a rimpatriare dalla Germania per scontare la pena di attività illecite, desideroso di riscatto e insoddisfatto delle misere condizioni che l’Italia del tempo può offrirgli. Eppure, da premesse tanto inconciliabili, i due personaggi riescono, senza che la scena scivoli mai nel sentimentalismo, a trovare una faticosa quanto semplice sintonia.

Ma se protagonista della pellicola è lo strano filo che unisce Pietro e Benito, non da meno è il contesto nel quale questo si cementa. È infatti il mondo degli Itaker, gli “italianacci” per i tedeschi, a essere raccontato e che si spiega tramite le storie dei compagni di fabbrica di Benito, emigrati provenienti da tutta la Penisola in cerca di uno stipendio lontano da casa, dei piccoli malavitosi nostrani come Pantano, splendidamente interpretato da Michele Placido.

Ma è anche la realtà degli emigrati di tutto il mondo, turchi e rumeni,  fuggiti da un’esistenza povera e assettati dell’illusione di una vita florida altrove, è la storia di Doina, splendida giovane, che nel film ha il volto della bravissima Monica Birladeanu.

Tante diverse esistenze, accomunate dalla stessa scelta, si dispiegano a mostrarci il coraggio, la sofferenza e i mille dubbi di chi parte senza sapere quando e se tornare, intrecciandosi nella resa di una storia a tratti divertente, a tratti drammatica, ma sempre corale.

Quello che risulta più sorprendente durante la visione del film è la capacità da parte del regista e degli attori di rendere con estrema veridicità e pulizia i sentimenti indagati, in modo particolare nel caso di Francesco Scianna-Benito (che per rendere credibile, da siciliano, il suo personaggio napoletano, ha vissuto un mese e mezzo in campania) rivelatosi capace in questa pellicola di regalare agli spettatori la sua migliore interpretazione.

Ma è anche la scelta dei colori ad assumere un significato preponderante nella storia.

Grigio e bianco accompagnano lo spettatore nell’intimità dei personaggi, le ombre del Trentino, dei flashback e della fabbrica campeggiano in contrasto con la luce degli sguardi dei personaggi che si incrociano, a volte impietosi e spietati, altre incoraggianti, affettuosi, paterni.

A far da padrona è la sensazione di un’umanità senza patria, di un’esistenza sospesa nell’attesa di una svolta che non arriverà se non con il passare interminabile del tempo e la ricerca disperata di una ribellione dai tempi e dalle condizioni forzatamente imposte. Con una consapevolezza che durante l’evolversi degli eventi prende pian pian spessore: un senso della famiglia che deve oltrepassare i legami fisici e che si dimostra essere l’unico appiglio nella lotta per la sopravvivenza.

“Non sapevo come sviluppare lo spunto che mi era stato dato da Placido inizialmente”  racconta il regista alla presentazione del film “Non era nemmeno nelle mie intenzioni fare un film che parlasse di immigrazione, rivolto al passato, e anche l’idea di avere un bambino protagonista mi terrorizzava. Poi ho cominciato a trovare nella mia storia personale dei contatti: la mia famiglia è emigrata e ricordo che nel benessere che avevano trovato in quel luogo c’era anche il senso di isolamento.”

“Ho capito però dove dovevo andare a parare solo quando abbiamo legato a questa tematica quella della paternità, più universale, un’associazione che mi è sembrata naturale, l’emigrazione in fondo ha a che fare con la perdita e l’ossessione di ritrovare la propria famiglia.”

“Nella stesura mi sono anche reso conto che la seconda ondata migratoria è stata meno discussa rispetto alla prima, che è stata quasi mitizzata, forse perché è caduta in un momento felice della storia del nostro paese, e tra le motivazioni per cui tanti italiani partivano non c’era più la necessità di sopravvivenza ma di adeguarsi allo status di quegli anni, si partiva per comprarsi il frigo e non si tornava più.”

“Ho avuto dei riferimenti importanti che mi hanno guidato, “Radio Colonia” ad esempio, un libro che raccoglie le lettere dei nostri italiani in Germania e poi dei film, in particolare “Pane e cioccolata” che parla di emigrazione in modo molto diverso rispetto al nostro, ma di certo il personaggio di Francesco ha a che fare con l’ingenuità e la pulizia di quello interpretato da Manfredi.”

“E’ un peccato che questo film sia stato rifiutato dai festival italiani” dice invece Michele Placido.

“E’ stato tacciato di eccessivo classicismo, andrà a Berlino in un evento per ricordare i sessanta anni di emigrazione italiana.”

“Sarebbe bello invece portarlo in tournée, questa è una pellicola che dovrebbe essere vista, anche nelle scuole”.

Prodotto da Cinecittà Luce, il film approderà nelle sale cinematografiche il 29 Novembre.

Articolo a cura di: Benedetta Fazio e Maricia Dazzi.

 
 

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